Un grande pittore, gli anni Settanta e l’immaginazione al potere
Quando non si può uscire di casa, si viaggia in mondi fantastici. Del resto, il rimpianto che ci resta dell’infanzia é quello delle nostre avventure nel west, dei viaggi nello spazio o su un vascello pirata, a prescindere da dove siamo realmente vissuti. Prima che la televisione e tutto il resto rendessero obsoleti i viaggi immaginari, li potevamo realizzare due o tre volte l’anno: con le meraviglie portate dalla fiera, dalle giostre, dal circo, dove i cow-boys e le odalische erano in carne e ossa. E poi c’era la magia più potente di tutte: il grande schermo del cinema.
Ma per quasi mezzo secolo, il circo conservò un vantaggio rispetto al cinema: il colore.
Nella sala buia del film, l’immaginazione doveva farsi strada tra le scale di grigi del nitrato d’argento. C’era una sola possibilità per competere coi colori del circo: i manifesti sui muri. E come in tutto il mondo, anche nell’Italia uscita da due guerre, una delle poche vie per viaggiare a colori era l’uscita dei manifesti dei film.
A Treviso, all’alba degli anni ’50, al piccolo Renato non bastava guardare i manifesti dei film: perciò li staccava e se li portava a casa. Poi cercava di copiarli, di replicare con i colori e i pennelli le alchimie misteriose con le quali, tra il biondo di una diva e il blu di un oceano, si riusciva nell’incanto di convincere gli spettatori ad entrare nelle sale buie. Renato si propose al padrone del cinema Garibaldi: ogni settimana, sulla facciata del cinema, e su un furgone per le vie cittadine, avrebbe regalato agli spettatori i colori, dipingendo in formato gigante protagonisti, immagini e titoli dei film. Proprio come facevano i circhi.
Renato dopo qualche anno si ritrovò con una valigia su un treno per Roma. Gli aerei da Hollywood catapultavano a Via Veneto gli attori americani, e nelle campagne laziali iniziavano a sorgere templi romani di cartone, villaggi del west, persino l’arca di Noé e la torre di Babele. La facciata del cinema Garibaldi ormai diventava un Cinemascope, e Renato il giovane genio di cui quel mondo aveva bisogno per le proprie promesse colossali, su muri e palazzi di un’Italia che velocemente risorgeva dalle macerie. E l’uomo più potente e visionario di quel mondo era Dino De Laurentiis, il leggendario produttore di film, che fece di Renato Casaro il Michelangelo della storia del cinema.
Renato, che oggi ha 85 anni, ha affrescato la mitologia del cinema in migliaia di manifesti famosi, oggi ricercati ad ogni prezzo da collezionisti di tutto il mondo. E’ grazie a lui se nella nostra memoria sono impresse le icone di Clint Eastwood o Rambo, degli universi di Dario Argento, Sergio Leone, Bernardo Bertolucci, Francis Ford Coppola, Franco Zeffirelli.
C’era però dell’altro. Come per ogni grande maestro dell’arte, esiste sempre una parte nascosta, un fiume sotterraneo, forse minore, ma ricco di ulteriori meraviglie.
Attorno al 1960 anche il circo italiano trova il suo Dino De Laurentiis. Si chiama Enis Togni: snello, diretto come il suo nome. Lo si vede volteggiare in aria coi suoi innumerevoli fratelli e cugini in un film di Totò, Il più comico spettacolo del mondo (1953) una delle primissime pellicole italiane a colori (e la prima in 3D). Enis Togni, nel pieno boom del cinema, aveva capito una cosa: che il circo doveva rinnovarsi, saper competere ben oltre lo spettacolo artigianale di una dinastia secolare. E decide per un cambiamento. Smette di volare al trapezio e di farsi saltare addosso una tigre a petto nudo. Diventa un manager come quelli del cinema, spiazzante e grandioso. Getta alle ortiche un capitale come il marchio Togni (già troppo sfruttato dagli altri circhi di cugini e zii), ne inventa uno di fantasia, “Circus Heros”: un nome sexy e fiero, come il titolo di un film. Crea un tendone con una pista panoramica lunga ventidue metri, per un pubblico ormai abituato al cinemascope; strappa al cinema cosacchi, zulù, pellerossa e guerrieri cinesi, li raccoglie in carne e ossa sotto il tendone e parte oltre i confini, alla conquista dell’Europa. Ma intuisce che per vendere le proprie meraviglie di circo, gli serviva l’uomo che sapeva dipingere il cinema : proprio quel Renato Casaro.
Casaro, conteso tra Cinecittà e Hollywood, accetta di buon grado le richieste del circo come lavoretti in più, per arrotondare. Ma si accorge che il circo solletica un suo debole: la passione per gli animali e per le forme umane.
In pochi anni, Renato diventa il poeta visivo del circo europeo. Liana Orfei, la diva del cinema che per prima aveva portato sotto il tendone del circo i grandi registi e scenografi di Cinecittà, chiama Casaro per dipingere i nuovi manifesti dei suoi show esotici. Da Togni, a Orfei, alla grande dinastia francese Bouglione, Casaro non disdegna neanche le offerte dei piccoli circhi di paese: crea sulla carta e sui muri mondi fantastici che rendono moderno l’immaginario del circo. Se prima bastava dipingere la faccia di un clown o una prevedibile sfilata di elefanti, adesso il mondo della pista diventa un’epica murale. E il clown può anche sedurre in modo nuovo, con le pose disinvolte di un western cinemascope di Terence Hill.
Gli anni ’70 furono un’esplosione per il mondo dell’illustrazione grafica. Casaro sposa il minimalismo dell’epoca con il gusto del dettaglio realistico. Osa come nelle copertine dei fumetti: nella fantasia sfrenata dei manifesti del circo amplificava mille volte i reali contenuti dello spettacolo. Ma prometteva una sensazione che l’universo circense oggi ha perso: il mistero. L’enorme volto minaccioso di un pellerossa era sufficiente a prometterci
le meraviglie che avremmo trovato al “Circo Americano”; giaguari e odalische si muovevano sinuosamente tra guerrieri orientali o divinità azteche, a rassicurarci sul gusto esotico da mondo movies dei fratelli Orfei. La geografia aveva meno importanza delle proporzioni, quando il genio della lampada di un aladino-clown si alzava a dismisura sopra il tendone, o un gorilla alto venti metri inseguiva una folla di animali attraverso la jungla. Casaro intuiva che la visione panoramica era l’imperativo perchè il circo potesse battere il cinema sul suo stesso terreno. Un grande cavallerizzo francese, Emilien Bouglione, col pennello di Renato Casaro diventava magicamente un divo del cinema, sulla sella scintillante d’oro scalpitante in una nube di polvere. Con la mano del pittore, una troupe di trapeziste appariva più seducente di un esercito di pin-up parigine. L’interno dei tendoni diventava una Cappella Sistina delle arti acrobatiche: circhi profondi a dismisura, in un blu notte che vomitava fiumi di trapezisti, acrobati equestri e showgirls a cavallo di elefanti.
Se un regista di cinema dovesse oggi ispirarsi al circo immaginario di Casaro di quegli anni, questi sarebbe Quentin Tarantino o Pedro Almodovar. Oggi si pensa al “circo tradizionale” come a un universo prevedibile e invecchiato, ed è probabilmente vero. Ma quel circo negli anni ’70 si affidava completamente alla follia. C’è qualcosa di rivoluzionario per un circense nello scegliere il più grande illustratore di cinema e lasciarlo libero di dipingere cose assolutamente inverosimili. Forse anche il pubblico sapeva che una volta sotto il tendone, difficilmente avrebbe trovato per davvero una mistress Apache seminuda a cavallo di una tigre, o una anaconda capace di avvolgere un tempio Incas. Ma il circo è per sua natura irrazionale, ed il suo pubblico diventa indulgente quando l’esagerazione della promessa confina col sogno. Il progetto circense degli anni Settanta era di invasione totale all’interno della comunità, in un’epoca in cui l’imperativo era spezzare limiti e confini della società e della fantasia. Gli impresari del circo pensavano in grande come quelli del cinema: e in più, a differenza loro, erano loro stessi a esibirsi in pista. Togni, Orfei, Medrano, Bouglione, trasmettevano a un pittore come Renato Casaro un segreto importante dell’arte della pista: l’animalità ancestrale, la seduzione fatta di energia e odori a metà tra uomo e bestia, tra erotismo e avventura, rischio della vita e grottesco. Ed è per questo che il circo degli anni Settanta sapeva competere col cinema, per questa sua sfrenata voglia di combattere la razionalità, e puntare sulla fisicità delle emozioni. Era d’altra parte un’epoca di avanguardia, non a caso di “immaginazione al potere”.
E oggi? Quanto circo rimane con questa portata emotiva? A volte sembra che chi crea uno spettacolo di circo contemporaneo debba razionalizzare tutto: intenzioni, premesse, “drammaturgia”, col rischio di non lasciare più molto spazio all’immaginazione dello spettatore.
Un’epoca interessante, di rinnovamento del circo “ancestrale”, si era avuta ancora alla fine degli anni ’80, con esperienze crude e ambiziose quali Archaos o Zingaro: circhi che sicuramente un illustratore come Casaro avrebbe saputo affrescare.
Ma al circo di oggi ,che continuiamo stancamente a declinare “tradizionale” o “contemporaneo”, perchè non siamo più capaci di trascinare migliaia di persone di ogni età e cultura in mondi lontani o inesistenti? Ci sono ancora le premesse per essere fieri concorrenti del cinema? Alcuni si sentono sicuri che l’epurazione dell’animalità sia una virtù; altri, al contrario, che una sfilata di cammelli o pacifiche leonesse siano ancora una emozione teatrale. Ma negli anni ’70 al circo le pantere ruggivano per davvero, le trapeziste brillavano di pietre preziose; l’”ercole nero” di New York arrivava realmente nei più sperduti paesini del Piemonte e sotto minuscoli tendoni piegava l’acciaio ;mentre nelle grandi città i pellerossa saltavano da un cavallo all’altro in ippodromi circensi di cinquemila posti a sedere. C’era un tipo di circo dovunque, per tutti, ed era a suo modo una forma di grande teatro.
Rimane oggi difficile immaginare che qualcuno, un tempo, potesse minuziosamente disegnare con un pennello i dettagli per pubblicizzare uno spettacolo, o un film, roba che per noi spettatori si consumava in due ore. Soprattutto oggi, con la fotografia o la grafica digitale. Quei manifesti erano enormi, parte del paesaggio urbano di un’Italia che, in anni difficilissimi, doveva poter sognare in grande. E per chiunque voglia studiare la storia delle arti della pista, ogni circo del passato ha una sola carta d’indentità tracciabile per raccontarne in un colpo d’occhio i caratteri, come per i film: il manifesto.
Quando ero bambino negli anni ’70, prima che arrivasse un circo inseguivo la squadra affissioni per farmi regalare un manifesto. Quando il circo se ne andava, chiedevo di staccarne uno a un fruttivendolo o una tabaccheria, rimuovendone con cura il nastro adesivo. Chiaramente non sapevo neanche di chi fosse quella firma “Casaro” sotto i clown o le tigri. Neanche potevo immaginare che, come me, altri in diverse città avevano avuto la stessa idea. Ai nostri giorni, questi manifesti sopravvivono per la passione di qualche collezionista, tra cui l’autore di queste righe. Sono quasi sempre consumati nelle pieghe, poichè troppo grandi per essere conservati distesi. Come sono sopravvissuti per mezzo secolo? A volte sono stati strappati dai muri o dalle vetrine dei negozi; altre sottratti furtivamente in tipografia prima ancora che arrivassero a destinazione; nella maggior parte chiesti in omaggio agli attacchini dei circhi, mani gravide di colla e inchiostro di operai nordafricani increduli alla richiesta stravagante. Dopo tutto questo tempo alcuni di questi lenzuoli di cellulosa sanno ancora di quell’inchiostro, oppure dell’indelebile e secolare odore dei carrozzoni di circo. Esiste una rete sotterranea, un manipolo di appassionati di queste cose tra Italia, Francia, Austria, persino Canada: gli uni o gli altri sono riusciti a recuperare in modi più o meno misteriosi questo o quel manifesto, in genere da seconde generazioni di quegli appassionati, oggi non più tra noi, che li avevano sottratti al macero. Ciò permette di ricostruire come un puzzle la produzione circense di Renato Casaro: si stimano almeno duecento soggetti circensi dipinti a mano, senza contare le migliaia di sue realizzazioni per il cinema. Il manifesto di circo fa oggi parte di quell’immenso patrimonio che serve a ricostruire come è stato plasmato l’immaginario delle arti della pista attraverso i secoli in cui tutto era più tangibile di oggi.
Renato Casaro è oggi definito “L’Ultimo Uomo che Dipinse il Cinema”, dal titolo di uno splendido documentario che gli è stato appena dedicato. Ma la stessa definizione la si può applicare al suo percorso circense: “ultimo” nel senso di fiero superstite, come uno di quei cowboys o cavallerizzi di frontiera dei suoi disegni, in qualche prateria dell’arte accerchiata ormai dagli eserciti photoshop. La pittura è materia organica: a volte la si fa con la terra e col sangue, come la terra e il sangue della pista circense, come lo sterco dei cavalli e il sudore di ci volteggia sopra. Sarebbe bello che tra poco, quando i circhi riprenderanno a girare, possano recuperare anche un pò di questa vitalità essenziale: con il suo carico di erotismo, ironia, rischio, bestialità, meraviglia assurda senza freni.
Raffaele De Ritis
Al seguente LINK potete vedere un trailer del film documentario su Renato Casaro.
Le illustrazioni dell’articolo sono manifesti da realizzazioni a pennello di Renato Casaro risalenti agli anni ’70, custoditi nella collezione di Raffaele De Ritis.
L’autore ringrazia il Maestro Renato Casaro per le conversazioni, i ricordi e la disponibilità.