Houdini, lockdown, Excalibur.

Racconto di imperatori, circensi e fughe dal presente.

Aun certo punto della serata del 1 Luglio 1912 al teatro Palace di Londra, gli sguardi del pubblico lasciarono gli artisti in proscenio, attratti verso il palco reale, nel bagliore dei gioielli della Regina Mary e del petto di medaglie e alamari del Re incoronato da poco più di un mese. Alzatosi dalla propria poltrona, Sua Maestà Giorgio V applaudiva, gli occhi profondi puntati felici verso i “suoi” artisti. A ricevere le ovazioni, una ventina di talenti, tra cui il meglio del circo contemporaneo di allora: come Paul Cinquevalli, l’innovatore della giocoleria; il danzatore nano Harry Ralph, in arte Little Tich, dalle lunghe scarpe a punta; David Devant, il padre dell’illusionismo moderno e già maestro di Georges Méliès. Il nuovo sovrano del Regno Unito e Imperatore delle Indie si era inventato, per festeggiare il proprio insediamento, la Royal Variety Performance: destinata a diventare il più grande appuntamento annuale nella storia del varietà. Per realizzarla si era rivolto ad un altro “sovrano”, il produttore Horace Edward Moss, l’imperatore inglese dello spettacolo. E così lo show tornò di anno in anno, per quasi un secolo, da Frank Sinatra al Cirque du Soleil, da Grock a Michael Jackson, con i regnanti sempre nel palco. Così anche nella 93esima edizione, il 18  Novembre 2020, quando si sono esibiti i “Black Blues Brothers”, troupe acrobatica africana creata in Italia dalla compagnia Circo e Dintorni.

Horace Edward Moss (da un programma di sala, 1902).

Ma torniamo a Moss, anzi Sir Moss: primo impresario ad essere nominato baronetto. Da ragazzino aveva iniziato accompagnando il padre che cantava nei pub, tenendogli i conti. Ma a suo modo sentiva questo ruolo come una specie di “confinamento sociale”: come tanti di noi oggi, desiderava stare da un’altra parte. Coi risparmi cominciò a comprare terreni che non voleva nessuno; aveva le idee chiare, se pensò a specializzare un architetto, Frank Matcham, per fabbricarci sopra teatri di varietà: in pochi anni ne avevano fatti 37, creando la “Moss Empire”, e inventando di fatto il music-hall. 

Al tramonto del Sabato 6 Gennaio 1900, a Londra aveva spiovuto da poco. Regnava ancora Edoardo VII, il padre di Re Giorgio, con in mano l’impero più vasto della terra. Pur in un inverno eccezionalmente gelido, decine di carrozze si insinuavano alla meglio dal caos di Charing Cross nella curva di Carnbourn Street depositando la créme londinese all’angolo di Leicester Square (piazza traboccante di teatri) dinanzi al nuovo, monumentale edificio, secondo la stampa “destinato a gareggiare con l’abbazia di Westminster” [1]. Era l’ “Hippodrome”, misterioso e attraente come il nuovo secolo. No, niente a che vedere con le corse dei cavalli. Molto a che fare invece con la sperimentazione circense, seppur oltre un secolo fa.  Era l’ultima invenzione di Sir Moss e del suo architetto, l’ammiraglia della loro flotta artistica. All’interno si inaugurava “il più lussuoso circo del mondo in gara con l’arte del teatro”[2]. Lo sterminato foyer dell’Hippodrome replicava l’interno di una nave, coperto da tappeti pregiati tra colonne di legno e marmo; vi si entrava folgorati dalla novità della luce elettrica: due impianti, uno pronto nel caso si fulminasse l’altro. La platea di logge oro e crema superava in sfarzo i teatri d’opera. La sontuosa caverna del boccascena la invadeva, diventando una pista di circo.

La sala dell’Hippodrome in una cartolina postale. Coll. Victoria and Albert Museum, London.

Grande attrazione dello show di apertura erano i 21 leoni di Julius Seeth, giunti in treno da Amburgo. Preceduto dal clamore di stampa degno di una rockstar, Seeth sosteneva di aver ricevuto le belve in omaggio da un altro imperatore, Menelik II d’Etiopia: per la prima volta in una gabbia circolare gigante, che sorgeva magicamente dai sotterranei. Le belve sarebbero state precedute da dieci attrazioni, tra cui gli acrobati giapponesi O’Kabe, un duo di funamboli, una forzuta signora verticalista e Leonidas con i suoi cani e gatti. Ma l’ambizione dell'”imperatore” Moss non si poteva fermare al circo tradizionale. Nella seconda parte la pista dell’Hippodrome si trasformava in piscina, una moda già in voga a Parigi, ma lui (col geniale architetto Matcham) riuscì a riempire l’arena con 400 tonnellate d’acqua e fontane telescopiche luminose, un impianto degno delle pagine di Jules Verne: le due entrate laterali al palco erano così larghe da poter veicolarvi vere navi. La produzione drammaturgica “Carnevale a Ostenda” del regista Frank Parker riempiva la seconda parte, con protagonista la superstar Little Tich. Tra zampilli giganti, inondazioni e figuranti vari anche un manipolo di gatti, ma questa volta finti, animati all’interno da bimbi, dei quali il più vivace, figlio di un cantante di  second’ordine, si chiama Charles Spencer Chaplin.

Albert Fratellini ©Gerald Bloncourt

Albert Fratellini
©Gerald Bloncourt

Negli anni a seguire, con questa modernissima commistione di acrobazia, teatro, danza il regista Parker sperimentava all’Hippodrome ogni trovata scenica e narrativa, e cercava talenti sul continente. Ad esempio pochi mesi dopo l’apertura reclutò da Parigi una ciurma di dieci circensi tuttofare tra cui tre ragazzi fiorentini cresciuti in Russia, di cognome Fratellini. Ma dopo il debutto si scoprì che serviva un clown moderno; Albert Fratellini, vagando di notte tra gli straccioni di Londra “l’umanità diseredata, le larve dell’ombra” [3] fu ispirato in quei giorni a creare la maschera grottesca più famosa della storia del clown. Erano tempi in cui dovevi cercare ispirazione fuori dal tuo mondo, se volevi evadere dal lockdown del già visto e dell’ordinario.

Uno che di evadere se ne intendeva era un mezzo circense di 25 anni, Harry Houdini. Proprio pochi mesi dopo l’apertura dell’Hippodome, era sbarcato a Londra dall’America, le ossa formate nei circhetti delle praterie, ma senza un contratto in tasca. Tarchiato, rozzo, parlava un inglese brutto, indossava smoking dozzinali (“stava alla classe del mago come un boxeur a un violinista” [4] ); e comunque dopo qualche anno nel vecchio mondo (dove peraltro era nato, a Budapest, prima che i suoi emigrassero), si era iniziato a far notare con una bizzarra invenzione: l’evasione dalle manette, una roba non si sa se più da mago o contorsionista. E comunque capace di quasi quattro anni di successo tra i tendoni dei circhi tedeschi e cabaret olandesi. A Londra, come a Parigi, era passato già un paio di volte: ora Moss lo voleva al suo Hippodrome. E così, nel Marzo del 1904, sulle fiancate degli autobus a due piani si leggeva “All’Hippodrome – Houdini!!!”, tre punti esclamativi. Come sempre Harry e gli impresari avevano organizzato per la stampa una dimostrazione di anteprima in un commissariato: i poliziotti con l’elmetto, il manganello e i bottoni, come quelli delle comiche, circondavano l’artista che evadeva dalle loro stesse manette. E poi in teatro. Il programma di quel mese ne aveva per tutti. Oltre a Houdini c’era la troupe Picchiani, inventori dell’acrobatica con le bascule; il ventriloquo Segommer, i poneys, un cane che faceva la statua, e persino l’Edisonograph, antenato del cinema.
Ma la gente non veniva. Gli autobus con le scritte, le manette al commissariato, i pupazzi del ventriloquo famoso, non riempivano la più grande sala di Londra. E dire che per la seconda parte acquatica il regista Parker si era inventato gli elefanti sullo scivolo: si, quando dopo l’intervallo la pista sprofondava, da un alto, enorme scivolo glissavano nella piscina gli elefanti nuotatori di Busch, arrivati (ma in nave) da Berlino. Neanche questo attirava gente.
Ma Houdini non era tipo da restare confinato in settimane di fiasco.

Houdini all’Hippodrome nel 1904 esamina le manette con cui lo sfidava il quotidiano London Daily Mirror.

Nel frattempo a Birmingham un certo Nataniel Hart era uscito dopo cinque anni da un confinamento volontario opposto a quelli che si auto-infliggeva  Houdini. Era un fabbro, rimasto chiuso nel proprio laboratorio  con l’ossessione di fabbricare un paio di manette impossibili. Catene, lucchetti e altre diavolerie potevano essere portate ogni sera in teatro dagli spettatori: Houdini se ne liberava in due minuti. La sera del 13 marzo 1904, all’Hippodrome semivuoto scese in pista il redattore capo del quotidiano Daily Mirror. Era un giornale popolarissimo ma, un pò come per l’Hippodrome, negli ultimi tempi le vendite erano un pò in calo. Il giornalista mostrò un paio di manette rigide e massicce: erano quelle del fabbro di Birmingham. Potevano essere aperte solo con una chiave gigantesca, mai vista, che una volta ruotata nella serratura faceva scattare un cilindro con una seconda chiave interna, capace di sei altri giri. Dopo averle esaminate, Houdini rifiutò la sfida. Ma il pubblico iniziò ad animarsi, e gli sfidanti a insistere [5]. Harry ribadì il proprio rifiuto, sostenendo che comunque ci sarebbe voluto troppo tempo, forse ore. Si diceva che persino uno specialista di casseforti le aveva maneggiate per 72 ore senza riuscire ad aprirle. Intervenne Moss: si doveva andare avanti con gli elefanti nuotatori. Il pubblico però era ormai incontenibile. Alla fine fu stabilita per il Giovedì successivo una recita pomeridiana per chi volesse assistere alla sfida. Houdini prima di ritirarsi posò per un fotografo mentre, pensoso, esaminava le manette da cui, per la prima volta, aveva paura di non potersi liberare.

Il disegno della sfida apparso sul Mirror Ilustrated del 18 Marzo 1904.

Il pomeriggio stabilito vennero convocati dei volontari in pista ad esaminare le manette. Scesero una ventina di signori con lunghi cappotti, bombette e cilindri, e posarono davanti al lampo di un fotografo con l’artista e i giornalisti. Un pittore del Mirror chiese ai due sfidanti di posare per uno schizzo a carboncino e china. Finalmente ammanettato, Houdini fu confinato nel lockdown misterioso di un un piccolo cubo quadrato di tela, alto circa un metro: poteva starci solo in ginocchio. L’orchestra attaccò, il pubblico in attesa. Dopo 22 minuti, la testa dell’artista emerse: ma era solo per vedere meglio le manette alla luce. L’orchestra attaccò un valzer. Altri 35 minuti ed uscì di nuovo; questa volta a chiedere un cuscino, per le ginocchia. Quattromila teste non si mossero per altri 55 minuti, quando Houdini emerse di nuovo, ancora ammanettato e fradicio di sudore nel suo frac. Voleva che fossero tolte un istante le manette per potersi sfilare almeno la giacca, ma il permesso fu rifiutato. Ne nacque un numero nel numero: Harry estrasse con la bocca un coltellino da una tasca, ed iniziò a lacerare la propria giacca, gettandola in brandelli, tornando nella tenda dopo aver bevuto un bicchiere d’acqua. L’orchestra attaccò una marcia. Harry era uscito da qualunque restrizione: carceri, cinghie di cuoio, lenzuola bagnate. Ma qui niente. Passarono altri dieci minuti e Houdini finalmente uscì, brandendo le manette aperte e intatte, per essere portato in trionfo. Moss prorogò lo spettacolo all’Hippodrome, esaurito per settimane, inondando Londra di manifesti. Le vendite del Daily Mirror aumentarono di giorno in giorno. Houdini, ha scritto di recente uno storico, “con quella fuga aveva trovato la sua Excalibur” [6]: dopo il clamore mondiale di quell’impresa, niente avrebbe potuto frenare la via verso la carriera più leggendaria nella storia di circo e varietà. ♠

Come aveva fatto Houdini a liberarsi? Secondo qualcuno poteva forse slogare i polsi, ma quel tipo di manette non lo permetteva. Per altri, avrebbe ricevuto la chiave nascosta nel bicchiere d’acqua, ma certo non una tanto enorme. Ancor meno un complice da una botola: impossibile non solo per la moquette che copriva la pista, ma per la piscina sottostante, pronta per gli elefanti. Studiando per anni tutte le tracce di quella sera e della vita di Houdini, io il metodo oggi lo conosco. Non ve lo dirò: non è quello il segreto importante. Vi posso solo dire che come tutte quelle cose che si credono fondamentali ma non si trovano mai, il sistema é sotto gli occhi, ed più semplice di quanto si possa immaginare. E poi la magia, se rivelata, perde tutto il proprio fascino.

La cosa invece importante é che Houdini quella sera aveva trovato una chiave molto più preziosa di quella per le manette: era evaso dal confinamento della propria carriera, che rischiava di normalizzarsi. Nello stesso tempo aveva liberato sia il Daily Mirror,  che Moss e il suo Hippodrome, dal lockdown del fallimento, in un’epoca in cui l’eccesso di offerta dei teatri concorrenti era più insidioso delle chiusure totali di oggi. Aveva fatto evadere il circo dalle sue tradizioni, inventando un dialogo contemporaneo col pubblico, col proprio numero trasformato in un happening situazionista, in cui non c’era quasi niente da vedere ma emozioni fortissime. Era fuggito dal tempo, dilatandolo all’infinito.

Little Tich, circa 1902.

Il tempo. Oggi dedichiamo il nostro tempo a una prigionia stretta come la cabina di Houdini: ma la vita degli artisti è un’eterna storia di lockdown e di modi per uscirne. E ogni paio di manette ha sempre una chiave. Come quella di Albert Fratellini, che evade a cercare l’idea di clown del Novecento non tra le facce candide e i lustrini dei suoi colleghi pierrot, ma nei bassifondi, comprando da un barbone incredulo, dalla bocca larga e l’enorme naso reso rosso dall’etilismo, i suoi sudici abiti fuori taglia e le enormi scarpe sfondate. O il suo collega Little Tich, che alzandosi sulle punte trasforma l’handicap del nano nel gigante del music-hall. Come l’impresario Moss, che stanco di spettacolini nelle taverne decide che i teatri è tempo di fabbricarseli; del suo fedele Parker, che intuendo i tempi diventa uno dei primi registi circensi. O come Re Giorgio, che fugge dal “confinamento” secolare delle feste di incoronazione inventando al loro posto il varietà moderno. E alla fine un po’ come i Black Blues Brothers, che dal cliché dell’acrobazia “etnica” sbarcano in Italia per rinascere in una vita artistica nuova, la quale a sua volta li porta a trasformare la quarantena in un’avventura inglese, la stessa inaugurata un secolo fa dallo stesso Sir Edward Moss, impresario di Houdini, su un’idea del Re…La chiave gira, tutto gira, del resto il circo é rotondo, sempre in fuga da un presente che diventa troppo presto passato. ♥

P.S.
Se andate a Londra, infilatevi in Little Newport Street. Di fronte a un take-away cinese vedrete l’altissimo portone di legno da cui entrarono gli elefanti tuffatori.   Girando l’angolo, in Leicester Square, c’è subito la facciata dell’Hippodrome. Su un lato una targa commemora il visionario architetto Matcham, anche se nessuno ricorda il regista Parker. Entrate pure, benché purtroppo nel boccascena troverete solo slot machines e roulettes. Ma se vi concentrate bene, ci sono ancora i fantasmi degli sfidanti di Houdini, del piccolo Chaplin, di Little Tich e dei leoni dell’imperatore Menelik II. E chissà, vi guideranno a liberare la vostra Excalibur incagliata in qualche roccia, forgiata da quel fabbro che non è mai esistito.

Citazioni:

London Evening Standard, 31 Dicembre 1889
2  Pall Mall Gazette, 5 Gennaio 1900
3 Albert Fratellini, Nous, les Fratellini, Parigi, 1958
4 Jim Steinmeyer, Hiding the Elephant, New York, 2003
London Daily Mirror, 14 Marzo 1900
6 Bill Kalush e Harry Sloman, The secret life of Houdini, 2006 

 
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