Per il circo che aspetta

Resilienza e potere di contagio del più antico spettacolo del mondo: ci sono ancora gli anticorpi?

Il senso di rischiare la vita per arte, essenza della gente del circo, si é sfasciato in pochi giorni come un castello di carte.Tendoni ripiegati gli uni dopo gli altri. Alcune tournée hanno visto solo il tempo di una prova generale, per tornare indietro ai quartieri d’inverno (per chi li possiede).
I cavernosi edifici degli “show permanenti”, da qualche decennio avamposti di ambizioni tecnologiche (utopia di migliorare la meraviglia pura dei corpi), spenti come magazzini.

Il vuoto é un punto di partenza (…) per aiutarci a scoprire ogni volta cosa é davvero essenziale per sostenere la ricchezza della voce e del corpo in scena. (Peter Brook, in “A fior di labbra”, 2018).

Grock in attesa di entrare in scena, fotografato da Izis, 1954.

Non che il destino umano fermi ora per la prima volta il circo.
Con non minore fragilità di vascelli in tempesta, i circhi sono stati ripetutamente frenati dalla Storia. Circhi stabili divennero bivacchi di soldati durante la rivoluzione russa, o granai in Francia durante la Ia Guerra Mondiale; nel 1978 in Iran, la caduta dello Scià vide il circo di Moira Orfei abbandonato alla fame per mesi; le due Guerre Mondiali sono costate l’estinzione di circhi antichi e gloriosi, per altri la sosta di anni, prima di ripartire.
Ci si fermava, si aspettava.
Anche il gigante storico, il Ringling bros. And Barnum e Bailey, negli anni ’40 interruppe un tour a metà per le pressioni sindacali: più di mille dipendenti, animali ed artisti senza lavoro e il più grande circo del mondo sul lastrico.
E poi il fuoco. Due volte, tra il 1810 e il 1820 l’incendio distrusse il progenitore dei circhi stabili europei, il Cirque Olympique Franconi di Parigi; e due volte il tendone del circo Togni negli anni ’50. E poi inondazioni, trombe d’aria, nevicate hanno atterrato imperi viaggianti di tela in pochi secondi.
Ma ancora, ci si fermava, si aspettava. Dopo gli incendi, la famiglia Togni usava ripartire con lo slogan resiliente “come prima, meglio di prima”.
Virus, pesti, epidemie, hanno decimato nei secoli milioni di persone, e hanno cambiato le forme di economia, produzione e divertimento dell’uomo: ma non hanno mai sconfitto il circo.
Il fatto è che il circo, più d’ogni altra forma, rinasce dalle proprie ceneri. E’ dovuto alla sua natura unica tra ogni genere di spettacolo: la propria universalità. Non si lega troppo all’età, alla lingua o alle culture di chi va a vederlo. Sa riadattare la propria economia e l’offerta artistica, e muoversi rapidamente, dove serve, attraverso il pianeta.
Il circo é peggio di un virus.
Perciò ci si ferma, si aspetta.
L’adattabilità é l’arma di sopravvivenza dei più durevoli organismi, si sa; ed il circo é là da secoli. Anzi, dopo ogni tragedia, la sua vitalità ha sempre contaminato un nuovo pezzo di pianeta.

Ma il circo di oggi? Ha ancora gli anticorpi storici per riadattarsi al mondo?

Negli ultimi due decenni, una parte del circo si é fieramente legittimata nel mondo della “cultura”. Ha conquistato un sistema di pratiche in genere assenti dalla sua storia secolare: danaro pubblico, tempi e luoghi per “creare”,équipes artistiche, pubblico delle arti, un’economia passata dall’itineranza di un intero spazio scenico al confort delle sale teatrali; dal sistema a incasso a quella meno incerta del cachet. In breve: il “circuito culturale”. Un sistema in cui il pubblico non va cercato casa per casa, e in cui non ci si porta più dietro la propria.

Artisti in attesa dello spettacolo al circo Ringling. Foto di Stanley Kubrick, 1948.

Laddove teatro, musica e danza hanno una storia di sussidio pubblico riconducibile almeno al XVesimo secolo, ciò é solo recente per acrobati e clowns, non nella natura storica del circo.
Ove il teatro si é storicamente basato su tali sistemi di funzionamento, il circo si é sempre salvato grazie ad un anticorpo specifico: la ricerca del pubblico ovunque attraverso il pianeta. Una caratteristica faticosa, un travaglio folle, più da libri di avventure che da mondo reale. Ma é quella che ha scolpito nel tempo il successo planetario del circo.
Tale natura é stata condivisa anche con alcune forme di teatro, vicine al circo: le compagnie di giro, (prosa, rivista e commedia musicale, fino all’avanspettacolo). Quel teatro cioè, che la critica e e le istituzioni hanno sempre definito con qualche distanza “spettacolo popolare”.

Il circo ha per secoli resistito con un sistema ben definito: la trasmissione dei saperi tramite le figure dei “maestri”; la simbiosi dei tempi di creazione e di quelli della rappresentazione (da cui l’”improvvisazione” come tecnica); la fedeltà essenziale di uno spazio scenico (la pista di 13 metri); l’immediatezza dello spettacolo senza badare a “contenuti” altri dal dare emozioni; la costante innovazione del repertorio (si, innovazione, per secoli, e molta); la capacità istintiva nella ricerca di nuovi mercati. Con molti problemi. sicuramente: la ricerca delle piazze, le invenzioni per pubblicizzarsi, la concorrenza, la burocrazia.
Ma questo é stato per secoli il dna del circo, e meglio di un virus esso si é adattato al mondo ed ha resistito.

I problemi dei nuovi circensi sono diversi. Non sono fatti più della fatica di piazze, affissioni, camion, letame, ruggiti, altoparlanti; ma del sudore borghese a tavolino: rivendicando una patente di “contemporaneità”. Fradicio sotto un’impalcatura mentale di bandi, progetti europei, domande ministeriali, “processi creativi”, “residenze”: nozioni che riempiono dibattiti, confronti, chat, anche con compiacimento; in alcuni casi come ragione stessa di esistenza. Ma dentro?
Si é ancora riflettuto poco su quanto i contenuti artistici di questo nuovo sistema abbiano realmente rafforzato la natura del circo ed i propri anticorpi: quanto rimanga ancora di popolare, immediato, universale; quanta meraviglia, quanto divertimento. Quanto l’evoluzione attuale sia stata fedele all’eternità del circo come forma specifica. Quanto un teatro acrobatico postmoderno, fatto di tanto pensiero, orfano dei codici della pista e di ogni animalità istintiva, possa essere forte nella durata.

Saprà questo circo “culturale” resistere al cambiamento?
Quanto esso é resiliente?
Quanto fedele alla natura organica delle proprie origini?

Foto di apertura: Il tendone del circo Togni tra le rovine a Milano, 1948 (foto di Mario De Blasi).

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