Alfabeto di circo per il 2020

A cura di Raffaele De Ritis

Che circo si lascia dietro il 2019? E com’é quello che ci aspetta per il futuro?
Una parola per ogni lettera dell’alfabeto: per tracciare ciascuno la propria mappa circense italiana o mondiale.  

Australiani
La più interessante fucina creativa all’orizzonte dei nuovi anni ’20: dopo il boom di “Circa”, compagnie nuove e in espansione: idee, ironia, divertimento e tecnica elevata, con grande capacità di affrontare il mercato mondiale. Da osservare, sorprese all’angolo.

Bologna, Città di Circo 2019.

Bologna (ovvero Città di Circo).
Sorprendente momento di coesione della realtà italiana; e uno spontaneo catalogo vivente di quello che sembra un bel destino identitario per il circo italiano di nuova generazione: la faticosa ma appassionante vita sotto il tendone.

Circuiti
L’interesse del mondo teatrale verso il circo cresce in modo esponenziale: sia verso i prodotti stranieri di grande formato che per le più intimiste compagnie italiane. Una frontiera solo appena esplorata. Può dare molto, a patto di livelli professionali e contenuti competitivi.

Discipline
Tessuti, ruote cyr e pali cinesi sembrano finalmente fare spazio anche a generi classici dimenticati: riecco le sospensioni ai capelli, gli equilibri su pertiche, le troupes di bascule, qualche bicicletta. Le idee che aspettano sono infinite. Pescare nella storia, e meglio ancora frequentare i saggi anziani delle famiglie antiche: il futuro si costruisce sulle spalle dei giganti.

Edimburgo
Va bene: Auch, Marsiglia, Avignone. Ma, non ne vogliano i francofili, quella scozzese si afferma la più sensazionale vetrina circense (non solo) del mondo. Quest’anno poi, anche un trionfo italiano, con i “Black Blues Brothers” di Circo e Dintorni.

Festival di Edimburgo 2019, The Black Blues Brothers.

Film
Sono quelli che più di ogni altra cosa nutrono l’immaginario circense del pubblico. Lo scorso anno “The Greatest Showman” e “Dumbo”, al netto della melassa hollywoodiana, hanno comunque aiutato a mantenere vivi il mito e il gusto del circo.

Generi
Il mantra della “contaminazione” ha articolato il circo attuale in nuovi piani di lettura: da quello artistico (opera musicale, circo-danza, circo narrativo), alle declinazioni del campo ludico (circo-fitness, danza aerea, juggling), e nuovi orizzonti si aggiungono ai già ricchi modi di pratica e fruizione.

Houdini
Ovvero il rischio, la follia, il mistero, insomma l’aspetto estremo del circo, che era stato un po’ dimenticato. Sentimenti arcaici, ce li ricordano lo spiazzante “Uomo Calamita” di El Grito, o l’anarchico “Laerte” di My Laika. Dunque avanti ancora su questa strada: a differenza del teatro, il circo funziona più di pancia che di testa.

Infanzia
L’offerta di scuole piccolo circo resta il florido perno dell’apprendimento. E il giovane pubblico? Quale fascia di spettacoli per l’infanzia (o meglio la famiglia) tra formule tradizionali e compagnie innovative? Il circo é stato per oltre un secolo la prima esperienza di spettacolo dal vivo per ogni individuo nel mondo. Sa esserlo ancora?

Libri
Sempre troppo pochi sul circo, ma due belle sorprese nell’anno che finisce. In Italia “Conoscere, creare e organizzare circo”, di A.Serena e V.Campo (Franco Angeli editore); in lingua inglese “Contemporary Circus” (a cura di K.Lavers, L.P.Leroux, J.Burtt), attualissima antologia con interviste a creatori internazionali. La pubblica Routlege, il più prestigioso editore al mondo di studi teatrali. Correte su Amazon.

Ministero
Croce e delizia del mondo circense: triennio in scadenza, e arrembaggio per il prossimo (occhio all’ipotesi di rinnovati decreti). Suggerimento: ricordarsi sempre che “tradizionale” e “contemporaneo” all’atto pratico fanno lo stesso mestiere e hanno gli stessi problemi, soprattutto se con i tendoni. Un tavolo comune di lavoro non sarebbe male.

Nouveau Cirque
E’ un’espressione che storicamente ha quasi mezzo secolo, anche se mai davvero circoscritta. Alcuni suoi schemi sono diventati una nuova forma di tradizione, ma la portata innovativa resta importante. La grande sfida: non farlo diventare uno stereotipo convenzionale.

Johan LeGuillerm, Roma 2019.

Oggetti
Pile di tronchi, travi in bilico, sentieri di mattoncini, piramidi di scatoloni, maschere di animali. Tra indubbie meraviglie contemplative, attenzione a non perdere di vista il corpo e i suoi exploits impossibili; insomma l’eroismo virtuosistico del gesto circense.

Piemonte
HUB da sempre del nuovo circo italiano, tra inevitabile francofilia e sontuosa ricchezza propositiva. L’Italia circense non sarebbe la stessa senza la crescita della Fondazione Vertigo, la vivacità della Flic, le indigestioni gourmet di Mirabilia e il lussuoso Sul Filo del Circo. E poi infinite costellazioni a sorpresa, da Brachetti a Brocante. Ma anche una politica regionale da osservare.

Québec
Non si può fare a meno di ammirare i collettivi canadesi. Alti livelli tecnici, regie essenziali e ritmate all’americana, stereotipi tematici semplici (la stazione, la mostra d’arte, la vacanza sulla neve), coreografie precisine, marketing d’assalto. Il Quebec resta inoltre sicuramente un modello unico per la formazione e la diffusione.

Circo Zoe, trionfo italiano al festival di Auch (Francia) 2019

Regia
La parola magica con cui si ambisce al blasone di nobiltà artistica circense. Sta lasciandosi dietro qualche peso di troppo nella drammaturgia cerebrale degli ultimi vent’anni. La prossima tappa nella costruzione degli spettacoli: la conquista del ritmo e della leggerezza. E più ambizione a divertire che a fare arte (come indicavano Shakespeare e Brecht). Qualcuno già ci riesce bene.

Il Cirque du Soleil sulle navi da crociera MSC.

Soleil
Nel primo ventennio del secolo ha sdoganato l’idea di circo, e spesso la domina ancora. Tutte le altre compagnie ne prendono le distanze, tutte se ne servono di riflesso. Oggi espande le proprie attività con prodotti paralleli in 60 Paesi. Resta la più grande fonte di lavoro al mondo per artisti di circo. Trascorrere almeno un anno nel suo organico é consigliabile a qualunque esordiente. Inizia l’anno con un nuovo show a Las Vegas da 65 milioni di dollari, e un dipartimento per le crociere della flotta MSC. Ci darà ancora sorprese.

Talent show
Terra di nessuno per gli artisti, in particolare di circo. Giurie di “esperti” in visibilio per una capriola, professionisti mondiali scambiati per gente con hobby stravaganti. Fuorviante eticamente, ma vuoi mettere l’opportunità di diffondere le arti circensi? Forse, almeno (vista l’audience) l’unico metro per capire su quale ampia scala il circo sappia ancora stupire come arte popolare.

Varietà
Detto in gergo anche (meno precisamente) “cabaret”. Che il “nuovo circo” rifiutasse come la peste la “sequenza di numeri” fino a qualche anno fa poteva ancora andare. Ma in tutto il mondo si riscopre il gusto e il divertimento degli spettacoli misti come una cosa stranamente nuova. Una delle prossime strade della “ricerca”?

Web
Nel 2019 due modelli hanno arricchito l’uso di internet nel mondo circense: la rete CircusTalk  con le sue declinazioni social), col suo vivacissimo giornale online e gli strumenti di relazione del settore; e lo strepitoso sito di storia del circo promosso dal Ministero francese creato da Cnac e Biblioteca Nazionale di Francia (cirque-cnac.bnf.fr). Da non dimenticare l’inarrestabile arricchimento di materiali su Circopedia e la nascita del blog Astley’s Place che state leggendo (seguiteci, dunque).

Urbano, circo
Dal “teatro di strada” alle pratiche acrobatiche che invece nelle strade nascono. Il legame con lo spazio abitato e con l’architettura, e la cultura partecipativa, comportano imprevedibili e nuove dinamiche artistiche e formative. Non é un caso se le ultime produzioni del Cirque du Soleil pescano, più che nei centri di formazione, nelle pratiche artistico-sportive che vengono dalla vita urbana.

“Theatre du Centaure”. Biennale du Cirque di Marsiglia 2019.

Zoo
Mass -media e politica esaltano frettolosamente come “contemporanea” qualunque forma priva di animali; i circensi detti “tradizionali” rivendicano gli animali come unica identità possibile. Non si va da nessuna parte. Vie di mezzo? Come in ogni cosa del mondo, ci sono esempi virtuosi (ed esperienze scadenti) in ciascuno dei campi. Il Cirque du Soleil (ancora lui) insegna: “noi rispettiamo tutte le forme di circo”. Consiglio ai naviganti: il circo é nato a cavallo, può essere saggio collaborare tra tutte queste forme per costruire il futuro.

Ombre del gesto

Tracce del circo, in una nuova archeologia dell’immagine filmata

di Raffaele De Ritis

La memoria del circo é affidata al gesto.
Exploits del corpo, costruiti su combinazioni di attitudini impercettibili; questione di sguardi e sudori, miseria di ore di prove al freddo. L’artista non ha supporti di trasmissione oltre alla fisicità che scompare.
E quel risultato, in quella manciata troppo breve di lustrini e bagliori, può essere registrato dal pubblico solo in un ricordo che diventa troppo presto sogno, allucinazione.
La precisione di incisori, pittori e scultori ci ha trasmesso per un paio di secoli la memoria del circo; poi la fotografia; ma il circo non va molto d’accordo con l’immobilità. E infatti il cinema, dalla sua nascita, ha scelto clowns e acrobati tra i primissimi temi per materializzare la magia dell’immagine in movimento.

Il duo Footit e Chocolat alle prese con un apparecchio fotografico. Volantino pubblicitario, 1903 ca. Raffaele De Ritis Archives.

Già nel pre-cinema (le lanterne magiche, poi i rudimentali prassinoscopi, zoetroopi e altri incanti fin de siécle) cavallerizze, equilibriste e pierrot giocolieri erano i temi privilegiati per inventare l’illusione del movimento. Edison e i Lumière, gli inventori del cinema, quando non riprendevano scene urbane portavano la prima macchina da presa sulla scena del varietà o sulle piste dei circhi. Trapeziste, cani ammaestrati e entrées clownesques sono tra i primissimi documenti della storia del cinema.
E’ grazie ai Lumiére che abbiamo i numeri di Foottit e Chocolat, il primo duo clownesco della storia, muti ma eloquenti nel prepotente dinamismo che solo i corpi di circo hanno.

Certo, il circo diventerà un soggetto costante, sterminato nei melodrammi e nelle commedie della storia del cinema, argomento ampiamente esplorato. Invece la curiosità di chi scrive é ai margini del cinema: in un limbo dove l’immagine filmata non ricostruisce bensì ruba lo spettacolo crudo del circo; essa vi si insinua col pretesto di documentari, cinegiornali, varietà televisivi e senza saperlo regala alla memoria perle fedelissime e straordinarie di quest’arte. E’ necessario un lavoro archeologico, di scavo nei cunicoli insospettabili di sorgenti le più disparate.

La troupe Rastelli filmata in “Europa di Notte” (1959) di Alessandro Blasetti. Lobby card per pubblicità nei cinema. Raffaele De Ritis Archives.

Films pseudo-erotici degli anni ’60: nei cosiddetti “film di attrazioni”, tra un numero di spogliarello e una veduta notturna di Amburgo proibita si scoprono riprese dei numeri integrali di leggendari artisti, in un glorioso technicolor. Tra i mille esempi, i sublimi Diors Dancers, pionieri della fusione tra acrobazia e danza moderna; o la regina del trapezio, Miss Mara.

Ma non ci sono solo i lungometraggi. Le sale cinematografiche regalavano un’esperienza fatta anche di notiziari filmati o cortometraggi di esordienti. E allora, tra un’incoronazione balcanica e un raid aereo, possono spuntare preziosi minuti con le prime immagini esistenti della “bascula coreana”, grazie a ritagli di pellicole contrabbandate per miracolo da qualche cameramen d’Oriente; o nientemeno che il numero di Buster Keaton sulla pista del Medrano di Parigi negli anni ’40.

Vi é poi lo sterminato mondo del cinema documentaristico Sovietico: ecco eloquenti scorci su leggendari clowns come Popov e Karandash, o sui primi collettivi, in uno splendido bianco e nero; o ancora le notizie filmate francesi che nei primi anni ’70 raccontano la nascita delle scuole di circo pioneristiche; e ancora, l’Istituto Luce che documenta l’epica dei primi minuscoli circhi itineranti italiani.

Il trio Saddris sul set del programma televisivo “La Piste aux Etoiles”, 1965 ca. Foto di scena, Raffaele De Ritis Archives

Vi é infine la televisione. In Francia, dal 1952 al 1976, il programma “La Piste aux Etoiles” ogni Sabato sera ha portato nelle case 180 puntate con migliaia di numeri da tutto il mondo, raccolti sulle piste del Medrano e del Cirque d’Hiver con un’orchestra strepitosa dal vivo.
Vi sono varietà televisivi inglesi, come il “Paul Daniels’ Show”, con le grandi attrazioni degli anni ’80 e ’90. O qualche numero ogni tanto invitato per caso a riempire talk show italiani o spagnoli degli anni ’70. Poi ovviamente le trasmissioni annuali dei festival di Monte Carlo e del Cirque de Demain, che da quasi ormai mezzo secolo sono il catalogo storico dell’evoluzione del circo in ogni sua forma.

Ecco, chi scrive setaccia di continuo il fiume infinito alla ricerca di minuscoli frammenti, seguendo piste che portano a mille altre tracce. Nasce così il progetto Nuovo Cinema Circo: un’occasione di possibili sintesi in cui in un’ora o due di cine-spettacolo é possibile viaggiare nel tempo alla scoperta dei più grandi eroi del circo di ogni epoca.

Riflettere, fare confronti, scoprire di cosa é capace la trasmissione di un gesto attraverso le generazioni.
Ma sopratutto meravigliarsi di quanto era o é preziosa la nostra ingenuità, e finalmente rilassarsi a godere di una bellezza che non é scomparsa, ma forse sempre più rara.

Raffaele De Ritis

Immagine di copertina: set cinematografico al Circo Price di Madrid, 1962.
Diapositiva originale, Raffaele De Ritis Archives.

21 Febbraio 2019
Tutti i diritti di riproduzione di immagini e testo, anche parziale, sono riservati.

Per il circo che aspetta

Resilienza e potere di contagio del più antico spettacolo del mondo: ci sono ancora gli anticorpi?

Il senso di rischiare la vita per arte, essenza della gente del circo, si é sfasciato in pochi giorni come un castello di carte.Tendoni ripiegati gli uni dopo gli altri. Alcune tournée hanno visto solo il tempo di una prova generale, per tornare indietro ai quartieri d’inverno (per chi li possiede).
I cavernosi edifici degli “show permanenti”, da qualche decennio avamposti di ambizioni tecnologiche (utopia di migliorare la meraviglia pura dei corpi), spenti come magazzini.

Il vuoto é un punto di partenza (…) per aiutarci a scoprire ogni volta cosa é davvero essenziale per sostenere la ricchezza della voce e del corpo in scena. (Peter Brook, in “A fior di labbra”, 2018).

Grock in attesa di entrare in scena, fotografato da Izis, 1954.

Non che il destino umano fermi ora per la prima volta il circo.
Con non minore fragilità di vascelli in tempesta, i circhi sono stati ripetutamente frenati dalla Storia. Circhi stabili divennero bivacchi di soldati durante la rivoluzione russa, o granai in Francia durante la Ia Guerra Mondiale; nel 1978 in Iran, la caduta dello Scià vide il circo di Moira Orfei abbandonato alla fame per mesi; le due Guerre Mondiali sono costate l’estinzione di circhi antichi e gloriosi, per altri la sosta di anni, prima di ripartire.
Ci si fermava, si aspettava.
Anche il gigante storico, il Ringling bros. And Barnum e Bailey, negli anni ’40 interruppe un tour a metà per le pressioni sindacali: più di mille dipendenti, animali ed artisti senza lavoro e il più grande circo del mondo sul lastrico.
E poi il fuoco. Due volte, tra il 1810 e il 1820 l’incendio distrusse il progenitore dei circhi stabili europei, il Cirque Olympique Franconi di Parigi; e due volte il tendone del circo Togni negli anni ’50. E poi inondazioni, trombe d’aria, nevicate hanno atterrato imperi viaggianti di tela in pochi secondi.
Ma ancora, ci si fermava, si aspettava. Dopo gli incendi, la famiglia Togni usava ripartire con lo slogan resiliente “come prima, meglio di prima”.
Virus, pesti, epidemie, hanno decimato nei secoli milioni di persone, e hanno cambiato le forme di economia, produzione e divertimento dell’uomo: ma non hanno mai sconfitto il circo.
Il fatto è che il circo, più d’ogni altra forma, rinasce dalle proprie ceneri. E’ dovuto alla sua natura unica tra ogni genere di spettacolo: la propria universalità. Non si lega troppo all’età, alla lingua o alle culture di chi va a vederlo. Sa riadattare la propria economia e l’offerta artistica, e muoversi rapidamente, dove serve, attraverso il pianeta.
Il circo é peggio di un virus.
Perciò ci si ferma, si aspetta.
L’adattabilità é l’arma di sopravvivenza dei più durevoli organismi, si sa; ed il circo é là da secoli. Anzi, dopo ogni tragedia, la sua vitalità ha sempre contaminato un nuovo pezzo di pianeta.

Ma il circo di oggi? Ha ancora gli anticorpi storici per riadattarsi al mondo?

Negli ultimi due decenni, una parte del circo si é fieramente legittimata nel mondo della “cultura”. Ha conquistato un sistema di pratiche in genere assenti dalla sua storia secolare: danaro pubblico, tempi e luoghi per “creare”,équipes artistiche, pubblico delle arti, un’economia passata dall’itineranza di un intero spazio scenico al confort delle sale teatrali; dal sistema a incasso a quella meno incerta del cachet. In breve: il “circuito culturale”. Un sistema in cui il pubblico non va cercato casa per casa, e in cui non ci si porta più dietro la propria.

Artisti in attesa dello spettacolo al circo Ringling. Foto di Stanley Kubrick, 1948.

Laddove teatro, musica e danza hanno una storia di sussidio pubblico riconducibile almeno al XVesimo secolo, ciò é solo recente per acrobati e clowns, non nella natura storica del circo.
Ove il teatro si é storicamente basato su tali sistemi di funzionamento, il circo si é sempre salvato grazie ad un anticorpo specifico: la ricerca del pubblico ovunque attraverso il pianeta. Una caratteristica faticosa, un travaglio folle, più da libri di avventure che da mondo reale. Ma é quella che ha scolpito nel tempo il successo planetario del circo.
Tale natura é stata condivisa anche con alcune forme di teatro, vicine al circo: le compagnie di giro, (prosa, rivista e commedia musicale, fino all’avanspettacolo). Quel teatro cioè, che la critica e e le istituzioni hanno sempre definito con qualche distanza “spettacolo popolare”.

Il circo ha per secoli resistito con un sistema ben definito: la trasmissione dei saperi tramite le figure dei “maestri”; la simbiosi dei tempi di creazione e di quelli della rappresentazione (da cui l’”improvvisazione” come tecnica); la fedeltà essenziale di uno spazio scenico (la pista di 13 metri); l’immediatezza dello spettacolo senza badare a “contenuti” altri dal dare emozioni; la costante innovazione del repertorio (si, innovazione, per secoli, e molta); la capacità istintiva nella ricerca di nuovi mercati. Con molti problemi. sicuramente: la ricerca delle piazze, le invenzioni per pubblicizzarsi, la concorrenza, la burocrazia.
Ma questo é stato per secoli il dna del circo, e meglio di un virus esso si é adattato al mondo ed ha resistito.

I problemi dei nuovi circensi sono diversi. Non sono fatti più della fatica di piazze, affissioni, camion, letame, ruggiti, altoparlanti; ma del sudore borghese a tavolino: rivendicando una patente di “contemporaneità”. Fradicio sotto un’impalcatura mentale di bandi, progetti europei, domande ministeriali, “processi creativi”, “residenze”: nozioni che riempiono dibattiti, confronti, chat, anche con compiacimento; in alcuni casi come ragione stessa di esistenza. Ma dentro?
Si é ancora riflettuto poco su quanto i contenuti artistici di questo nuovo sistema abbiano realmente rafforzato la natura del circo ed i propri anticorpi: quanto rimanga ancora di popolare, immediato, universale; quanta meraviglia, quanto divertimento. Quanto l’evoluzione attuale sia stata fedele all’eternità del circo come forma specifica. Quanto un teatro acrobatico postmoderno, fatto di tanto pensiero, orfano dei codici della pista e di ogni animalità istintiva, possa essere forte nella durata.

Saprà questo circo “culturale” resistere al cambiamento?
Quanto esso é resiliente?
Quanto fedele alla natura organica delle proprie origini?

Foto di apertura: Il tendone del circo Togni tra le rovine a Milano, 1948 (foto di Mario De Blasi).

Houdini, lockdown, Excalibur.

Racconto di imperatori, circensi e fughe dal presente.

Aun certo punto della serata del 1 Luglio 1912 al teatro Palace di Londra, gli sguardi del pubblico lasciarono gli artisti in proscenio, attratti verso il palco reale, nel bagliore dei gioielli della Regina Mary e del petto di medaglie e alamari del Re incoronato da poco più di un mese. Alzatosi dalla propria poltrona, Sua Maestà Giorgio V applaudiva, gli occhi profondi puntati felici verso i “suoi” artisti. A ricevere le ovazioni, una ventina di talenti, tra cui il meglio del circo contemporaneo di allora: come Paul Cinquevalli, l’innovatore della giocoleria; il danzatore nano Harry Ralph, in arte Little Tich, dalle lunghe scarpe a punta; David Devant, il padre dell’illusionismo moderno e già maestro di Georges Méliès. Il nuovo sovrano del Regno Unito e Imperatore delle Indie si era inventato, per festeggiare il proprio insediamento, la Royal Variety Performance: destinata a diventare il più grande appuntamento annuale nella storia del varietà. Per realizzarla si era rivolto ad un altro “sovrano”, il produttore Horace Edward Moss, l’imperatore inglese dello spettacolo. E così lo show tornò di anno in anno, per quasi un secolo, da Frank Sinatra al Cirque du Soleil, da Grock a Michael Jackson, con i regnanti sempre nel palco. Così anche nella 93esima edizione, il 18  Novembre 2020, quando si sono esibiti i “Black Blues Brothers”, troupe acrobatica africana creata in Italia dalla compagnia Circo e Dintorni.

Horace Edward Moss (da un programma di sala, 1902).

Ma torniamo a Moss, anzi Sir Moss: primo impresario ad essere nominato baronetto. Da ragazzino aveva iniziato accompagnando il padre che cantava nei pub, tenendogli i conti. Ma a suo modo sentiva questo ruolo come una specie di “confinamento sociale”: come tanti di noi oggi, desiderava stare da un’altra parte. Coi risparmi cominciò a comprare terreni che non voleva nessuno; aveva le idee chiare, se pensò a specializzare un architetto, Frank Matcham, per fabbricarci sopra teatri di varietà: in pochi anni ne avevano fatti 37, creando la “Moss Empire”, e inventando di fatto il music-hall. 

Al tramonto del Sabato 6 Gennaio 1900, a Londra aveva spiovuto da poco. Regnava ancora Edoardo VII, il padre di Re Giorgio, con in mano l’impero più vasto della terra. Pur in un inverno eccezionalmente gelido, decine di carrozze si insinuavano alla meglio dal caos di Charing Cross nella curva di Carnbourn Street depositando la créme londinese all’angolo di Leicester Square (piazza traboccante di teatri) dinanzi al nuovo, monumentale edificio, secondo la stampa “destinato a gareggiare con l’abbazia di Westminster” [1]. Era l’ “Hippodrome”, misterioso e attraente come il nuovo secolo. No, niente a che vedere con le corse dei cavalli. Molto a che fare invece con la sperimentazione circense, seppur oltre un secolo fa.  Era l’ultima invenzione di Sir Moss e del suo architetto, l’ammiraglia della loro flotta artistica. All’interno si inaugurava “il più lussuoso circo del mondo in gara con l’arte del teatro”[2]. Lo sterminato foyer dell’Hippodrome replicava l’interno di una nave, coperto da tappeti pregiati tra colonne di legno e marmo; vi si entrava folgorati dalla novità della luce elettrica: due impianti, uno pronto nel caso si fulminasse l’altro. La platea di logge oro e crema superava in sfarzo i teatri d’opera. La sontuosa caverna del boccascena la invadeva, diventando una pista di circo.

La sala dell’Hippodrome in una cartolina postale. Coll. Victoria and Albert Museum, London.

Grande attrazione dello show di apertura erano i 21 leoni di Julius Seeth, giunti in treno da Amburgo. Preceduto dal clamore di stampa degno di una rockstar, Seeth sosteneva di aver ricevuto le belve in omaggio da un altro imperatore, Menelik II d’Etiopia: per la prima volta in una gabbia circolare gigante, che sorgeva magicamente dai sotterranei. Le belve sarebbero state precedute da dieci attrazioni, tra cui gli acrobati giapponesi O’Kabe, un duo di funamboli, una forzuta signora verticalista e Leonidas con i suoi cani e gatti. Ma l’ambizione dell'”imperatore” Moss non si poteva fermare al circo tradizionale. Nella seconda parte la pista dell’Hippodrome si trasformava in piscina, una moda già in voga a Parigi, ma lui (col geniale architetto Matcham) riuscì a riempire l’arena con 400 tonnellate d’acqua e fontane telescopiche luminose, un impianto degno delle pagine di Jules Verne: le due entrate laterali al palco erano così larghe da poter veicolarvi vere navi. La produzione drammaturgica “Carnevale a Ostenda” del regista Frank Parker riempiva la seconda parte, con protagonista la superstar Little Tich. Tra zampilli giganti, inondazioni e figuranti vari anche un manipolo di gatti, ma questa volta finti, animati all’interno da bimbi, dei quali il più vivace, figlio di un cantante di  second’ordine, si chiama Charles Spencer Chaplin.

Albert Fratellini ©Gerald Bloncourt

Albert Fratellini
©Gerald Bloncourt

Negli anni a seguire, con questa modernissima commistione di acrobazia, teatro, danza il regista Parker sperimentava all’Hippodrome ogni trovata scenica e narrativa, e cercava talenti sul continente. Ad esempio pochi mesi dopo l’apertura reclutò da Parigi una ciurma di dieci circensi tuttofare tra cui tre ragazzi fiorentini cresciuti in Russia, di cognome Fratellini. Ma dopo il debutto si scoprì che serviva un clown moderno; Albert Fratellini, vagando di notte tra gli straccioni di Londra “l’umanità diseredata, le larve dell’ombra” [3] fu ispirato in quei giorni a creare la maschera grottesca più famosa della storia del clown. Erano tempi in cui dovevi cercare ispirazione fuori dal tuo mondo, se volevi evadere dal lockdown del già visto e dell’ordinario.

Uno che di evadere se ne intendeva era un mezzo circense di 25 anni, Harry Houdini. Proprio pochi mesi dopo l’apertura dell’Hippodome, era sbarcato a Londra dall’America, le ossa formate nei circhetti delle praterie, ma senza un contratto in tasca. Tarchiato, rozzo, parlava un inglese brutto, indossava smoking dozzinali (“stava alla classe del mago come un boxeur a un violinista” [4] ); e comunque dopo qualche anno nel vecchio mondo (dove peraltro era nato, a Budapest, prima che i suoi emigrassero), si era iniziato a far notare con una bizzarra invenzione: l’evasione dalle manette, una roba non si sa se più da mago o contorsionista. E comunque capace di quasi quattro anni di successo tra i tendoni dei circhi tedeschi e cabaret olandesi. A Londra, come a Parigi, era passato già un paio di volte: ora Moss lo voleva al suo Hippodrome. E così, nel Marzo del 1904, sulle fiancate degli autobus a due piani si leggeva “All’Hippodrome – Houdini!!!”, tre punti esclamativi. Come sempre Harry e gli impresari avevano organizzato per la stampa una dimostrazione di anteprima in un commissariato: i poliziotti con l’elmetto, il manganello e i bottoni, come quelli delle comiche, circondavano l’artista che evadeva dalle loro stesse manette. E poi in teatro. Il programma di quel mese ne aveva per tutti. Oltre a Houdini c’era la troupe Picchiani, inventori dell’acrobatica con le bascule; il ventriloquo Segommer, i poneys, un cane che faceva la statua, e persino l’Edisonograph, antenato del cinema.
Ma la gente non veniva. Gli autobus con le scritte, le manette al commissariato, i pupazzi del ventriloquo famoso, non riempivano la più grande sala di Londra. E dire che per la seconda parte acquatica il regista Parker si era inventato gli elefanti sullo scivolo: si, quando dopo l’intervallo la pista sprofondava, da un alto, enorme scivolo glissavano nella piscina gli elefanti nuotatori di Busch, arrivati (ma in nave) da Berlino. Neanche questo attirava gente.
Ma Houdini non era tipo da restare confinato in settimane di fiasco.

Houdini all’Hippodrome nel 1904 esamina le manette con cui lo sfidava il quotidiano London Daily Mirror.

Nel frattempo a Birmingham un certo Nataniel Hart era uscito dopo cinque anni da un confinamento volontario opposto a quelli che si auto-infliggeva  Houdini. Era un fabbro, rimasto chiuso nel proprio laboratorio  con l’ossessione di fabbricare un paio di manette impossibili. Catene, lucchetti e altre diavolerie potevano essere portate ogni sera in teatro dagli spettatori: Houdini se ne liberava in due minuti. La sera del 13 marzo 1904, all’Hippodrome semivuoto scese in pista il redattore capo del quotidiano Daily Mirror. Era un giornale popolarissimo ma, un pò come per l’Hippodrome, negli ultimi tempi le vendite erano un pò in calo. Il giornalista mostrò un paio di manette rigide e massicce: erano quelle del fabbro di Birmingham. Potevano essere aperte solo con una chiave gigantesca, mai vista, che una volta ruotata nella serratura faceva scattare un cilindro con una seconda chiave interna, capace di sei altri giri. Dopo averle esaminate, Houdini rifiutò la sfida. Ma il pubblico iniziò ad animarsi, e gli sfidanti a insistere [5]. Harry ribadì il proprio rifiuto, sostenendo che comunque ci sarebbe voluto troppo tempo, forse ore. Si diceva che persino uno specialista di casseforti le aveva maneggiate per 72 ore senza riuscire ad aprirle. Intervenne Moss: si doveva andare avanti con gli elefanti nuotatori. Il pubblico però era ormai incontenibile. Alla fine fu stabilita per il Giovedì successivo una recita pomeridiana per chi volesse assistere alla sfida. Houdini prima di ritirarsi posò per un fotografo mentre, pensoso, esaminava le manette da cui, per la prima volta, aveva paura di non potersi liberare.

Il disegno della sfida apparso sul Mirror Ilustrated del 18 Marzo 1904.

Il pomeriggio stabilito vennero convocati dei volontari in pista ad esaminare le manette. Scesero una ventina di signori con lunghi cappotti, bombette e cilindri, e posarono davanti al lampo di un fotografo con l’artista e i giornalisti. Un pittore del Mirror chiese ai due sfidanti di posare per uno schizzo a carboncino e china. Finalmente ammanettato, Houdini fu confinato nel lockdown misterioso di un un piccolo cubo quadrato di tela, alto circa un metro: poteva starci solo in ginocchio. L’orchestra attaccò, il pubblico in attesa. Dopo 22 minuti, la testa dell’artista emerse: ma era solo per vedere meglio le manette alla luce. L’orchestra attaccò un valzer. Altri 35 minuti ed uscì di nuovo; questa volta a chiedere un cuscino, per le ginocchia. Quattromila teste non si mossero per altri 55 minuti, quando Houdini emerse di nuovo, ancora ammanettato e fradicio di sudore nel suo frac. Voleva che fossero tolte un istante le manette per potersi sfilare almeno la giacca, ma il permesso fu rifiutato. Ne nacque un numero nel numero: Harry estrasse con la bocca un coltellino da una tasca, ed iniziò a lacerare la propria giacca, gettandola in brandelli, tornando nella tenda dopo aver bevuto un bicchiere d’acqua. L’orchestra attaccò una marcia. Harry era uscito da qualunque restrizione: carceri, cinghie di cuoio, lenzuola bagnate. Ma qui niente. Passarono altri dieci minuti e Houdini finalmente uscì, brandendo le manette aperte e intatte, per essere portato in trionfo. Moss prorogò lo spettacolo all’Hippodrome, esaurito per settimane, inondando Londra di manifesti. Le vendite del Daily Mirror aumentarono di giorno in giorno. Houdini, ha scritto di recente uno storico, “con quella fuga aveva trovato la sua Excalibur” [6]: dopo il clamore mondiale di quell’impresa, niente avrebbe potuto frenare la via verso la carriera più leggendaria nella storia di circo e varietà. ♠

Come aveva fatto Houdini a liberarsi? Secondo qualcuno poteva forse slogare i polsi, ma quel tipo di manette non lo permetteva. Per altri, avrebbe ricevuto la chiave nascosta nel bicchiere d’acqua, ma certo non una tanto enorme. Ancor meno un complice da una botola: impossibile non solo per la moquette che copriva la pista, ma per la piscina sottostante, pronta per gli elefanti. Studiando per anni tutte le tracce di quella sera e della vita di Houdini, io il metodo oggi lo conosco. Non ve lo dirò: non è quello il segreto importante. Vi posso solo dire che come tutte quelle cose che si credono fondamentali ma non si trovano mai, il sistema é sotto gli occhi, ed più semplice di quanto si possa immaginare. E poi la magia, se rivelata, perde tutto il proprio fascino.

La cosa invece importante é che Houdini quella sera aveva trovato una chiave molto più preziosa di quella per le manette: era evaso dal confinamento della propria carriera, che rischiava di normalizzarsi. Nello stesso tempo aveva liberato sia il Daily Mirror,  che Moss e il suo Hippodrome, dal lockdown del fallimento, in un’epoca in cui l’eccesso di offerta dei teatri concorrenti era più insidioso delle chiusure totali di oggi. Aveva fatto evadere il circo dalle sue tradizioni, inventando un dialogo contemporaneo col pubblico, col proprio numero trasformato in un happening situazionista, in cui non c’era quasi niente da vedere ma emozioni fortissime. Era fuggito dal tempo, dilatandolo all’infinito.

Little Tich, circa 1902.

Il tempo. Oggi dedichiamo il nostro tempo a una prigionia stretta come la cabina di Houdini: ma la vita degli artisti è un’eterna storia di lockdown e di modi per uscirne. E ogni paio di manette ha sempre una chiave. Come quella di Albert Fratellini, che evade a cercare l’idea di clown del Novecento non tra le facce candide e i lustrini dei suoi colleghi pierrot, ma nei bassifondi, comprando da un barbone incredulo, dalla bocca larga e l’enorme naso reso rosso dall’etilismo, i suoi sudici abiti fuori taglia e le enormi scarpe sfondate. O il suo collega Little Tich, che alzandosi sulle punte trasforma l’handicap del nano nel gigante del music-hall. Come l’impresario Moss, che stanco di spettacolini nelle taverne decide che i teatri è tempo di fabbricarseli; del suo fedele Parker, che intuendo i tempi diventa uno dei primi registi circensi. O come Re Giorgio, che fugge dal “confinamento” secolare delle feste di incoronazione inventando al loro posto il varietà moderno. E alla fine un po’ come i Black Blues Brothers, che dal cliché dell’acrobazia “etnica” sbarcano in Italia per rinascere in una vita artistica nuova, la quale a sua volta li porta a trasformare la quarantena in un’avventura inglese, la stessa inaugurata un secolo fa dallo stesso Sir Edward Moss, impresario di Houdini, su un’idea del Re…La chiave gira, tutto gira, del resto il circo é rotondo, sempre in fuga da un presente che diventa troppo presto passato. ♥

P.S.
Se andate a Londra, infilatevi in Little Newport Street. Di fronte a un take-away cinese vedrete l’altissimo portone di legno da cui entrarono gli elefanti tuffatori.   Girando l’angolo, in Leicester Square, c’è subito la facciata dell’Hippodrome. Su un lato una targa commemora il visionario architetto Matcham, anche se nessuno ricorda il regista Parker. Entrate pure, benché purtroppo nel boccascena troverete solo slot machines e roulettes. Ma se vi concentrate bene, ci sono ancora i fantasmi degli sfidanti di Houdini, del piccolo Chaplin, di Little Tich e dei leoni dell’imperatore Menelik II. E chissà, vi guideranno a liberare la vostra Excalibur incagliata in qualche roccia, forgiata da quel fabbro che non è mai esistito.

Citazioni:

London Evening Standard, 31 Dicembre 1889
2  Pall Mall Gazette, 5 Gennaio 1900
3 Albert Fratellini, Nous, les Fratellini, Parigi, 1958
4 Jim Steinmeyer, Hiding the Elephant, New York, 2003
London Daily Mirror, 14 Marzo 1900
6 Bill Kalush e Harry Sloman, The secret life of Houdini, 2006 

 

Appesi a un capello

Su un’arte misteriosa, sul rischio e sul contatto umano.

La troupe Medeiros, New York, 2014.

I“cavalieri del vento”, 14 guerrieri a cavallo dell’Uzbekistan, dopo aver messo in salvo Pegaso e l’unicorno, vestiti come eroi di un videogame fantasy, avevano appena lasciato la pista, quando un enorme cilindro di tela saliva dall’arena, nascondendola in altezza. Il pomeriggio del 4 Maggio 2014 a Providence, Rhode Island, il palasport Donkin Donuts era pieno di migliaia di famiglie, fedeli all’appuntamento con il Ringling bros. & Barnum and Bailey Circus, il pù grande circo del mondo da 144 anni. Ora il suo nuovo spettacolo “Legends”, ricco di innovazioni tecnologiche e ispirato alla mitologia, arrivava al clou. Al cadere del cilindro di tela, dalla cupola dell’arena appariva il “ fiore di loto vivente”: nove ragazze della troupe Medeiros, brasiliane e bulgare, legate l’una all’altra in una impossibile scultura aerea umana. Niente di nuovissimo, se non fosse che ciascuna di loro era sospesa esclusivamente per i capelli: un numero ambizioso, mai realizzato prima in quel modo.
Per quasi un centinaio di repliche era andato tutto bene. Ma quel pomeriggio, la trave portante iniziò a traballare. La struttura si sbilanciò da un lato, fino a staccarsi, e le acrobate collassarono al suolo, tra cavi e acciaio. Il pubblico credette per alcuni istanti a un effetto spettacolare. Ma quando entrò in pista l’ambulanza, e la vista fu oscurata da alcuni assistenti con pannelli provvisori, adulti e bambini realizzarono la realtà.

Vedere un incidente nel circo è come svegliarsi da un bel sogno nella peggiore realtà ordinaria. Andiamo al circo perché è l’unico biglietto possibile verso la terra delle leggende e degli eroi. Esigiamo il pericolo, il rischio, perché vogliamo essere sicuri che nella nostra umanità spaventata esista ancora qualcuno che ogni sera sappia superarlo, con coraggio e determinazione. Però non accettiamo la responsabilità di vederlo in faccia. Ma cos’é il pericolo, al circo? Si pensa che il rischio risieda sempre nello specifico della tecnica circense. Nel caso dell’incidente al circo Barnum, non si era trattato di un problema di capelli, ma del banale cedimento di un anello nella struttura aerea (le ragazze, purtroppo dopo un lungo ricovero, sono per fortuna sopravvissute). I nostri capelli in realtà sono molto più affidabili, e sorprendenti, di quanto pensiamo.

Non sappiamo quando e in quale terra lontana di leggenda, un saltimbanco scoprì che un capello può sostenere cento grammi; e la nostra intera testa, tra cinque e ottomila chili.
Il numero della “sospensione capillare” è straordinariamente affascinante, perché ai limiti dell’immaginario stesso del rischio: niente sembra più precario di un capello, e nel nostro inconscio esservi sospesi é l’ultima speranza proverbiale di sopravvivenza.
Il capello umano è un’entità tra la vita e la morte, col dono della resurrezione. Ne perdiamo più di 50 al giorno, ma in una vita media abbiamo la possibilità di produrne mille km., se li mettessimo tutti in fila. Il capello ha la dote invidiabile, che tutti sogniamo, di equilibrare la fragilità apparente con la forza.

L’edizione 1916 del circo Barnum e Bailey (Ringling Museum of Arts, Tibbals Collection, Sarasota, Florida).

N el 1916, il circo Barnum e Bailey era già da tempo il più grande del mondo. Anche quell’anno arrivò a Providence, come in decine di altre città americane. Su 89 vagoni ferroviari si portava dietro 1400 persone e una vera “arca di Noé zoologica”. Nell’edizione di quell’anno, sulle tre piste apparivano i più grandi acrobati europei a terra e in aria; la coreografia “Persia” con migliaia di costumi orientali; un numero di elefanti e uno di topi ammaestrati, una famiglia di giraffe, il leggendario nano cavallerizzo italiano Bagonghi, e un quadro acrobatico in cui apparivano contemporaneamente, per la prima volta in un circo americano, quattro troupes cinesi “direttamente da Pechino”. La Cina imperiale era ancora una terra di meraviglie, crudeltà e misteri. I primi acrobati che si vedevano spiccavano per esercizi stravaganti ai limiti del rischio e della resistenza fisica: contorsionismo estremo, equilibri sadici. Lo stesso numero del lancio di coltelli, da loro importato alcuni decenni prima, era noto come “punizione dell’impalo”. Anche gli ingoiatori di spade furono introdotti in Europa dalla Cina. In quegli stessi anni, persino il mago Houdini battezzò “tortura cinese” la propria famosa evasione dall’acqua. Bene, in questo spettacolo del 1916 la novità cinese erano esercizi appesi per i capelli: una scivolata dall’alto lungo un cavo obliquo, sospensioni di forza, e poi una cena seduti attorno al tavolo a dieci metri di altezza, tutti naturalmente affidati alla forza del cuoio capelluto. Come per la maggior parte delle tecniche cinesi, anche la sospensione capillare era a quel tempo una esibizione solo maschile.

La troupe Lijen-Chai San, 1910 circa, Germania (Amsterdam National Biblioteek).

Non si trattava di tribù misteriose: da alcuni anni in Europa alcune famiglie cinesi di acrobati avevano avuto fortuna grazie agli interessi di agenti teatrali, e al florido circuito dei teatri di varietà del vecchio continente: lo stesso giro in cui i talent-scout del circo Barnum avevano scovato i nuovi prodigi per l’America. Ma quella del Barnum é forse la prima testimonianza di una esibizione “capillari” a grandi altezze.
Ma i cinesi arrivati col Barnum furono forse gli ultimi: questo per lo scoppio della Ia Guerra Mondiale, e poi con la chiusura dei confini in seguito alla rivoluzione comunista. Però quelli che si trovavano in occidente decisero di restarci, e così intere famiglie di acrobati e fachiri cinesi si stabilirono in Germania, terra di circhi e varietà.

Hansa-Theater, Amburgo, 1975: la troupe cino-tedesca Sun Tseng Hai (programma di sala, coll.R.De Ritis)

Dopo il 1950, il circo cinese di regime epurò tutte le tecniche estreme e “volgari”, creando scuole di acrobazia pura sul modello sovietico: il circo classico cinese come lo conosciamo oggi. Ma grazie ai cinesi “tedeschi”, si creò in Europa una bolla di archeologia vivente: famiglie che continuavano a tramandarsi giochi e tecniche cinesi altrimenti perdute, come quelle di un secolo fa. Tra esse, la sospensione con i capelli. Troupes come Sun Tseng Hai, New China, o Chi Bao Guy hanno continuato a insinuarsi tra i night-club di Amburgo e Parigi, ad aggregarsi a circhi   austriaci o spagnoli, quando la Cina era divenuta  inaccessibile sia a noi che a loro: continuando indisturbati a saltare in cerchi di pugnali infuocati, o prendere il tè a mezz’aria sotto i nostri tendoni.

Michael Bratty, Stati Uniti, 1962 (courtesy IJA).

Le cose che si possono fare appesi ai capelli sono ben poche: tra queste, “gionglare” con qualche oggetto. Miguel Bratty era un giocoliere che, avendo visto i cinesi “tedeschi” decise di farsi crescere i capelli, vestirsi da cinese e fare tutto il suo numero appeso in aria. Nel 1962 era anche lui al circo Ringling-Barnum. Nella pista di fianco alla sua si esibiva un collega, Bert Holt, che, invece che con i capelli, faceva il giocoliere appeso con la forza mascellare: per i denti. E questa volta fu lui a cadere, lasciando la presa della bocca e rompendosi le costole. Come sostituire un numero unico al mondo? Bert aveva una figlia, Christine, ballerina sul filo: la quale da diversi anni, in segreto, provava dieci minuti al giorno la tecnica dei capelli di Bratty. Come nelle migliori favole dello show-business, sostituì all’improvviso il padre ferito, superando in bellezza e stile il numero meno aggraziato del rivale Bratty, e divenendo in un attimo una star.

Chrys Holt al circo Knie nel 1967 (copertina di programma, collezione R.De Ritis).

Era nata l’attrazione di Chrys Holt, rendendo femminile, attuale e seducente una tecnica fino ad allora legata ad un esotismo maschile e desueto. Chrys era perfetta per gli anni ’60, epoca in cui anche il circo voleva le proprie dive. Dal più grande circo del mondo, Chrys fu contesa dai maggiori  tendoni e palcoscenici d’Europa. Nel 1968 fu scritturata al Circo Nazionale Svizzero dei fratelli Knie: il tempio che da sempre per un artista di circo equivale alla consacrazione mondiale.
Ma la nostra storia é ancora lungi dal terminare. Per il momento prendiamoci una pausa; rilassatevi, sedevi in poltrona e godetevi questo documento rarissimo: il numero completo di Chrys Holt nel 1965 a Parigi, cliccando QUI (courtesy Circopedia/archivio Raffaele De Ritis).

h

Puglie, 1978: Lucy Zoppis al circo Buks (locandina, coll. R.De Ritis).

Nel circo esiste una misteriosa energia in cui si generano tecniche, mode,

tendenze, per clonazione o imitazione, o vai a capire. Un segreto può trasmettersi per cinque generazioni di una stessa famiglia e spegnersi per sempre, o invece approdare in una scuola. Un genere può nascere come conseguenza improvvisa di un incidente tragico. Oppure una disciplina della pista può estinguersi a favore di altre novità o per il capriccio degli impresari. Negli anni ’70 la sospensione capillare si era fatta strada secondo diverse vie avventurose.

Da una parte Chrys Holt era diventata la diva delle giovani circensi francesi, italiane, spagnole o portoghesi: non c’era piccolo circo di provincia in cui un’avvenente imitatrice non ne replicasse il numero. Poi c’erano sempre i cinesi “tedeschi”, ma in un orientalismo sempre più fuori moda . Alla fine degli anni ’80, quando ormai arrivavano finalmente i cinesi veri con acrobazie vere, queste vecchie troupe si estinsero per sempre, e con essi i loro giochi come la sospensione capillare. Nel frattempo, Chrys Holt si era ritirata, e anche le sue imitatrici europee passarono ad altre mode circensi. E da allora, in tutta Europa, si perse il ricordo delle acrobata appese ai capelli: questa tecnica circense era praticamente estinta. Ma qualche fiammella, nel circo rimane  sempre accesa da qualche parte del mondo. Ed è così anche nel nostro caso, se seguitate a leggere questa storia facendo un passo indietro.

Marguerite Ayala, circo Ringling-Barnum, 1981 (programma, collezione R.De Ritis).

Negli anni ’20, in un minuscolo tendone sperduto tra i villaggi del Messico, Francisca Vazquez era riuscita ad appendersi per i capelli: anche lei nel 1916 aveva visto quei cinesi al circo Barnum e si era messa in testa di replicare il numero. E lo insegnò alla figlia, e poi alla figlia di sua figlia: al principio degli anni ’80 i Vazquez erano alla quinta generazione di una grande famiglia di circo e l’ultima di loro, Michelle Ayala, era diventata la star “capillare” del circo mondiale: e, sempre per il solito gioco del destino, ancora una volta al circo Barnum. Nel 1982 Michelle cadde, e restò una settimana in coma. Ma tornò a volare, e insegnò il segreto dei capelli alla figlia Marguerite. Nel frattempo, come era accaduto con Chrys Holt in Europa, tutti i piccoli circhi messicani iniziarono a emulare il numero dei capelli: e poi quelli venezuelani, colombiani, fino ad arrivare in Brasile, dove il sole fa crescere le chiome fluenti e forti. Ed é qui che un acrobata, Andre Medeiros (che faceva il numero della motocicletta nel “globo della morte”), insegna alla moglie bulgara Viktoria la sospensione capillare. I Medeiros arrivano negli Usa, al circo Cole bros., e da qui chiamati al Barnum, per creare il “lampadario vivente” con cui abbiamo iniziato la nostra storia.

Danila Bim in “Volta”, Cirque du Soleil, 2017 (ph. Michael Kaas).

Nel frattempo il circo Barnum, alla venerabile età di 146 anni, nel 2017 chiude i battenti per sempre: e con esso si estingue anche il suo ruolo di grande laboratorio vivente di numeri aerei. Ma quando un circo si ferma, ce n’é un altro che parte: nello stesso anno il Cirque du Soleil lancia il tendone dello show “Volta”, ispirato agli sport e alle pratiche ludiche estreme della civiltà urbana. Anche i suoi talent-scout avevano scoperto da tempo il Brasile: e qui chiedono alla ginnasta aerea Danila Bim di creare un numero di sospensione ai capelli. “Volta” introduce questa tecnica a una generazione di spettatori e artisti che non frequentavano i grandi circhi di massa come il Ringling. Danila ci riesce con una coreografia innovativa, essenziale e alla moda: tra fascino della meditazione, magia, danza contemporanea e stupore da side-show.

Compagnie Galapiat, 2013

Pochi anni prima, un’altra scintilla capillare era intanto riemersa nel posto più lontano e imprevedibile del mondo: a Helsinki. Elice Habonce Muhonen e Sanja Kosonen avevano studiato circo al CNAC,la scuola statale del circo contemporaneo in Francia. Chissà, forse qui avevano visto un manifesto d’epoca di qualche cinese nelle piste francesi degli anni ’60. Nelle scuole di circo conta anche conservare le tracce della memoria: perché anche una locandina strappata mezzo secolo fa e conservata, può avere un effetto imprevedibile sulle generazioni future. Fondano una loro compagnia, Galapiat, e nel 2013 introducono la tecnica capillare nell’universo del circo contemporaneo con la creazione “Capillotractées”, investigando nuove tecniche espressive. Anch’esse a loro volta generano emulazione: nel Febbraio 2020, al Festival du Cirque de Demain di Parigi avevamo visto   Francesca Hyde & Laura Stokes, con la loro danza capillare al rallentatore Tirée par Les Cheveux. Poi, poche settimane dopo, c’é stato il lockdown.

La troupe cino-tedesca Chi Bao Guy al Cirque Amar, Francia, 1965 (Amsterdam Theatre Museum).

DDa un anno ci siamo abituati ad una realtà in cui tutto si può imparare a distanza, collegando gli angoli della terra con zoom e youtube, i tutorial e tutto il resto. Invece la storia della sospensione capillare, e più in generale quella del circo ci insegnano un’altra cosa, forse paradossale: che la cosa più materiale del mondo, il contatto fisico, é l’unico modo per conservare le forme più immateriali, ovvero le emozioni. Corpi e sudore assicurano il trasferimento della meraviglia nello spazio e nel tempo. Di mano in mano, di sguardo in sguardo, di capello in capello, dalla preistoria cinese agli anni ’60, dal Messico a Helsinki, dalla Sicilia a New York, tra incidenti e trionfi, chilometri di chiome hanno tessuto una rete millenaria, inestricabile, sfuggente e resistente, a tratti sparita e poi riemersa. E quel contatto umano torna sempre, dovrà tornare, e riportare alla vita altri misteri scomparsi del circo che stanno giacendo sotto la sabbia di qualche pista sperduta nel mondo.

Quando tra qualche settimana riapriranno i parrucchieri, guardate le ciocche per terra, liberate l’immaginazione: e ditemi se non vedete  comporsi una carta geografica immaginaria e infinita senza tempo, di misteri e meraviglie.

Foto autografa della troupe Chang Lien Shang, Berlino, anni ’20 circa (coll. Amsterdam Theatre Museum).

Image

con il sostegno di

Image
Image

Ass.Giocolieri e Dintorni

Viale della Vittoria, 25
00053 Civitavecchia (Roma)
C.F. / P.IVA 06894411005

Social:

Segui gli altri progetti di
Giocolieri e Dintorni

 
Image
Image
Image
Image

Progetto Quinta Parete

con il sostegno di

Image
Image

Ass. Giocolieri e Dintorni

v.le della Vittoria, 25
00053 Civitavecchia (Roma)
C.F. / P.IVA 06894411005

Social:

Segui gli altri progetti di
Giocolieri e Dintorni

Image
Image
Image
© 2024 Giocolieri e Dintorni. Designed By Studio Bolognesi Privacy Policy Cookie Policy