Artekor Duet

intervista ad Alessio Ferrara e Roberta Ruggiero

Alessio
Il rapporto che ho col pubblico è strettamente correlato al mio operare in scena. Lavoro per immagini, per emozioni perciò è per me fondamentale raccogliere quante più informazioni possibili dal pubblico che assiste al mio spettacolo. Il modo più diretto per raccogliere queste impressioni è a fine spettacolo. Quando posso, chiedo sempre al pubblico di trattenersi per poter discutere sullo spettacolo e su ciò che ha suscitato. In questo modo ho la possibilità di andare sempre più a fondo nei percorsi immaginifici ed emozionali che cerco di esprimere in scena.
Gli spettatori sono sempre molto curiosi. Ci chiedono, ad esempio, come è nata l’idea di raccontare della vita, oppure, quale è stato il processo che ha portato a determinate scene o coreografie. Proprio perché lavoriamo per immagini oniriche, ci chiedono spesso come siamo arrivati a costruirle. O ancora, cosa rappresentano per noi quelle immagini più astratte che poi hanno riscontri totalmente diversi da persona a persona.
Non abbiamo mai richiesto dei momenti di feedback organizzati. Credo che sia molto più bello e più onesto che si crei in maniera spontanea. Se c’è necessità di un confronto, noi siamo sempre disponibili a crearlo. Ci prendiamo del tempo dopo lo spettacolo per stare sul posto, per stare tra la gente. Se hanno voglia di farci delle domande o di condividere critiche o emozioni, noi siamo molto interessati ad ascoltarle.

Roberta
Ci aiuta come una terza persona che ci guarda dall’esterno, e’ mezzo pubblico, mezzo programmatore, di cui ci annotiamo sempre i feedback per migliorare…ma alla fine non lo seguiamo mai, seguiamo quelli che non annotiamo e che ci vengono dalla gente. Posso dire con certezza che non cerchiamo di assecondare i gusti del pubblico. Nonostante ciò, quello che il pubblico ci dice è per noi sempre motivo di grande riflessione.
Puntiamo ad un pubblico trasversale, il più eterogeneo possibile: la gente comune, intellettuali, lavoratori di ogni genere, addetti ai lavori e non. Considero il pubblico tutto ciò che dà senso al mio operare, colui con cui vorrei relazionarmi. Mi piace il pubblico che si appassiona, che non è li meramente per intrattenersi, quello che riesce ad entrare in comunione con ciò che vede e sente in maniera profonda.

Alessio
Ricordo, durante un mio viaggio a Rio de Janeiro, che incontrai un clown che dopo la sua performance davvero decadente, una delle peggiori mai viste, si tolse il naso rosso e disse questa cosa: “io ho fatto delle riflessioni nella mia vita (parlando in portoghese). Nelle lingue neolatine la radice della parola Dio, dios in spagnolo, deus in portoghese, è sempre io. Tale radice con la ddavanti dà un senso di molteplicità, crea una moltitudine d’io, (diversa dal “noi”) e per questo credo che io + io + io + io facciamo Dio”. A quel punto il clown ricevette applausi appassionati che non era riuscito ad ottenere dopo un’ora di performance.
Ecco questa per me è la catarsi del teatro, del circo, dell’arte in generale: è cercare Dio. Quindi un pubblico razionale – o anche un performer totalmente razionale in scena – blocca per me questo confronto di anime alla ricerca di qualcosa che è più trascendentale.
Un’esperienza di questo genere l’ho vissuta proprio durante il Festival Mirabilia. Era luglio e nel tendone alle 10 del mattino c’erano circa 45 gradi! Roberta ed io all’ultima scena eravamo stremati, così come il pubblico! A fine spettacolo abbiamo invitato il pubblico a condividere i loro feedback su quanto appena visto. Molti fra loro erano evidentemente emozionati, e tale emozione ci ha contagiati. È stato un momento liberatorio!
Ho letto che, da ricerche scientifiche hanno trovato cento e più strutture chimiche delle lacrime. Non so che tipo di lacrime erano, sarebbe stato bello indagarne la struttura chimica… capire a quale emozione veramente appartenessero… ma posso dire con certezza che in quell’occasione col pubblico c’è stato un profondo scambio umano.

Roberta
Si, l’esperienza del Festival Mirabilia 2015 è sicuramente l’aneddoto più recente che spiega questa situazione. E’ stato molto bello ritrovarci col pubblico a fine spettacolo sotto un porticato che era adiacente allo chapiteau in cui ci eravamo appena esibiti.
In quel momento, si è materializzata “la terza parte” che era sempre stata presente con noi in sala durante il processo di creazione dello spettacolo. Improvvisamente eravamo un tutt’uno, non c’era più distanza tra noi e il pubblico, né fisica né emotiva.
Nel momento in cui entro in scena per cominciare “Cromosoma” so che sarà sempre diverso, un nuovo spettacolo. Questo perché, per quanto non lavoro con la partecipazione attiva del pubblico, l’energia e la tipologia di pubblico che assiste allo spettacolo influenza in modo determinante il mio stare in scena.
Piu’ che altro Cromosoma_ vite in divenire e’ uno spettacolo in divenire, vuole un pubblico che non si immedesima nei personaggi ma con se stessi. Esso auspica un pubblico che si ponga in contatto con la propria vita personale durante la visione. Infatti, il nostro spettacolo nasce proprio dal quesito: seppure siamo tutti diversi, quali sono le tappe, le stagioni e gli elementi che ci accomunano in quell’eterno divenire che è la vita?

Alessio
Ciò che non condivido dei programmatori è il loro bisogno di definire, di etichettare il genere di spettacolo che facciamo. Eppure li capisco. Però il nostro spettacolo non è etichettabile in uno specifico genere. Dipende tutto dal tuo vissuto e da cosa sei abituato a vedere. Questa questione ci crea alle volte difficoltà ad inserirci nelle programmazioni. Per i circensi Cromosoma è teatro danza mentre per i danzatori è circo. Noi lavoriamo per la fusione di queste arti e crediamo di aver creato un prodotto ibrido, visto che ibrido è stato il nostro percorso artistico.

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