Artekor Duet

intervista ad Alessio Ferrara e Roberta Ruggiero

Alessio
Il rapporto che ho col pubblico è strettamente correlato al mio operare in scena. Lavoro per immagini, per emozioni perciò è per me fondamentale raccogliere quante più informazioni possibili dal pubblico che assiste al mio spettacolo. Il modo più diretto per raccogliere queste impressioni è a fine spettacolo. Quando posso, chiedo sempre al pubblico di trattenersi per poter discutere sullo spettacolo e su ciò che ha suscitato. In questo modo ho la possibilità di andare sempre più a fondo nei percorsi immaginifici ed emozionali che cerco di esprimere in scena.
Gli spettatori sono sempre molto curiosi. Ci chiedono, ad esempio, come è nata l’idea di raccontare della vita, oppure, quale è stato il processo che ha portato a determinate scene o coreografie. Proprio perché lavoriamo per immagini oniriche, ci chiedono spesso come siamo arrivati a costruirle. O ancora, cosa rappresentano per noi quelle immagini più astratte che poi hanno riscontri totalmente diversi da persona a persona.
Non abbiamo mai richiesto dei momenti di feedback organizzati. Credo che sia molto più bello e più onesto che si crei in maniera spontanea. Se c’è necessità di un confronto, noi siamo sempre disponibili a crearlo. Ci prendiamo del tempo dopo lo spettacolo per stare sul posto, per stare tra la gente. Se hanno voglia di farci delle domande o di condividere critiche o emozioni, noi siamo molto interessati ad ascoltarle.

Roberta
Ci aiuta come una terza persona che ci guarda dall’esterno, e’ mezzo pubblico, mezzo programmatore, di cui ci annotiamo sempre i feedback per migliorare…ma alla fine non lo seguiamo mai, seguiamo quelli che non annotiamo e che ci vengono dalla gente. Posso dire con certezza che non cerchiamo di assecondare i gusti del pubblico. Nonostante ciò, quello che il pubblico ci dice è per noi sempre motivo di grande riflessione.
Puntiamo ad un pubblico trasversale, il più eterogeneo possibile: la gente comune, intellettuali, lavoratori di ogni genere, addetti ai lavori e non. Considero il pubblico tutto ciò che dà senso al mio operare, colui con cui vorrei relazionarmi. Mi piace il pubblico che si appassiona, che non è li meramente per intrattenersi, quello che riesce ad entrare in comunione con ciò che vede e sente in maniera profonda.

Alessio
Ricordo, durante un mio viaggio a Rio de Janeiro, che incontrai un clown che dopo la sua performance davvero decadente, una delle peggiori mai viste, si tolse il naso rosso e disse questa cosa: “io ho fatto delle riflessioni nella mia vita (parlando in portoghese). Nelle lingue neolatine la radice della parola Dio, dios in spagnolo, deus in portoghese, è sempre io. Tale radice con la ddavanti dà un senso di molteplicità, crea una moltitudine d’io, (diversa dal “noi”) e per questo credo che io + io + io + io facciamo Dio”. A quel punto il clown ricevette applausi appassionati che non era riuscito ad ottenere dopo un’ora di performance.
Ecco questa per me è la catarsi del teatro, del circo, dell’arte in generale: è cercare Dio. Quindi un pubblico razionale – o anche un performer totalmente razionale in scena – blocca per me questo confronto di anime alla ricerca di qualcosa che è più trascendentale.
Un’esperienza di questo genere l’ho vissuta proprio durante il Festival Mirabilia. Era luglio e nel tendone alle 10 del mattino c’erano circa 45 gradi! Roberta ed io all’ultima scena eravamo stremati, così come il pubblico! A fine spettacolo abbiamo invitato il pubblico a condividere i loro feedback su quanto appena visto. Molti fra loro erano evidentemente emozionati, e tale emozione ci ha contagiati. È stato un momento liberatorio!
Ho letto che, da ricerche scientifiche hanno trovato cento e più strutture chimiche delle lacrime. Non so che tipo di lacrime erano, sarebbe stato bello indagarne la struttura chimica… capire a quale emozione veramente appartenessero… ma posso dire con certezza che in quell’occasione col pubblico c’è stato un profondo scambio umano.

Roberta
Si, l’esperienza del Festival Mirabilia 2015 è sicuramente l’aneddoto più recente che spiega questa situazione. E’ stato molto bello ritrovarci col pubblico a fine spettacolo sotto un porticato che era adiacente allo chapiteau in cui ci eravamo appena esibiti.
In quel momento, si è materializzata “la terza parte” che era sempre stata presente con noi in sala durante il processo di creazione dello spettacolo. Improvvisamente eravamo un tutt’uno, non c’era più distanza tra noi e il pubblico, né fisica né emotiva.
Nel momento in cui entro in scena per cominciare “Cromosoma” so che sarà sempre diverso, un nuovo spettacolo. Questo perché, per quanto non lavoro con la partecipazione attiva del pubblico, l’energia e la tipologia di pubblico che assiste allo spettacolo influenza in modo determinante il mio stare in scena.
Piu’ che altro Cromosoma_ vite in divenire e’ uno spettacolo in divenire, vuole un pubblico che non si immedesima nei personaggi ma con se stessi. Esso auspica un pubblico che si ponga in contatto con la propria vita personale durante la visione. Infatti, il nostro spettacolo nasce proprio dal quesito: seppure siamo tutti diversi, quali sono le tappe, le stagioni e gli elementi che ci accomunano in quell’eterno divenire che è la vita?

Alessio
Ciò che non condivido dei programmatori è il loro bisogno di definire, di etichettare il genere di spettacolo che facciamo. Eppure li capisco. Però il nostro spettacolo non è etichettabile in uno specifico genere. Dipende tutto dal tuo vissuto e da cosa sei abituato a vedere. Questa questione ci crea alle volte difficoltà ad inserirci nelle programmazioni. Per i circensi Cromosoma è teatro danza mentre per i danzatori è circo. Noi lavoriamo per la fusione di queste arti e crediamo di aver creato un prodotto ibrido, visto che ibrido è stato il nostro percorso artistico.

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Stefano Guarino Grimaldi

in arte “Ciccio Paradise”
www.facebook.com/Giullari-Senza-Frontiere

intervista di A.R. in occasione del festival Cirk Fantastik, settembre 2015

Partiamo dalle origini della tua relazione col pubblico… quando eri uno spettatore e quando hai cominciato a fare i tuoi primi spettacoli

Avendo iniziato a fare spettacolo all’età di 18 anni, il mio periodo di spettatore disinteressato è durato molto poco. A fine anni ’90 le scuole di teatro di strada e circo non erano presenti sul territorio italiano e ogni spettacolo che si incontrava diventava una lezione, un momento formativo in cui bisognava capire e recepire più consigli utili possibili su come impostare e gestire uno spettacolo. Iniziai a scoprire le varie differenze di impatto che uno spettacolo ha sul pubblico: artisti che mettono in scena il proprio ingegno creativo, altri che studiano molto la drammaturgia e altri ancora che ripropongono in varie salse il classico e intramontabile canovaccio.

L’obiettivo dei miei spettacoli e delle mie performance, fin dall’inizio è sempre stato quello di far trascorrere al pubblico un momento di spensieratezza, non ho mai avuto l’obiettivo di volere lasciare un messaggio tra le righe, di insegnare qualcosa, o di fare riflettere troppo su alcune tematiche. Sono nato Clown è mi interessava far ridere con nuove idiozie, con l’obiettivo di creare con il pubblico una bolla magica che nasceva e moriva lì, in cui non una risata collettiva rimaneva il focus principale.

Tornando indietro, prima di arrivare qui, dopo il teatro di strada hai fatto altre esperienze di pubblico…cos’hai visto e vissuto?

Sono uno dei portatori sani del progetto di Giullari senza Frontiere (GSF) ho viaggiato tantissimo con loro e mi sono spesso confrontato con pubblici di altre culture, dal sudest asiatico all’africa al sudamerica. GSF, per me, è il progetto migliore per capire il pubblico: è un continuo studio antropologico della risata. Viaggiando in mezzo mondo ti rendi conto che anche tra culture estremamente diverse, ci sono degli elementi che le accomunano, soprattutto nell’assistere ad uno spettacolo. Per noi è molto interessante studiare il rapporto con ogni tipologia di pubblico e scoprire che ci sono meccanismi della risata e show che sono spesso uguali per tutti, anche se, a seconda della cultura e del paese in cui ti trovi, alcune cose funzionano bene e altre un bel po’ meno…

 

Ma quando dici uguale per tutti? cos’e’ che accumuna il pubblico tra il sudest asiatico e brindisi o milano che facevi per strada?

Col pubblico europeo c’e’ tanta differenza, siamo sovraccarichi di informazioni, e quindi anche nel momento in cui diventi spettatore le tue esigenze sono tante e la fretta ti assale. Siamo bombardati dalla tv, continuamente proiettati nel futuro, ci muoviamo alla velocità della luce e vediamo mille cose ovunque, non riusciamo più ad accontentarci del presente. Invece nei paesi in via di sviluppo la povertà non ti permette di avere progetti futuri, e vivi la tua vita attimo per attimo, perché nulla è scontato o garantito. La maggior parte della gente non ha la possibilità di vedere spettacoli e quando ne incontrano uno, per loro diventa un momento unico e speciale da gustarsi più che possono. Prestano un’attenzione molto più grande, nessuna fretta, nessuna inquietudine e nessuna pretesa. Questo ti permette, in qualche modo ti obbliga, a proporre sequenze semplici molto facili da comprendere, cose che da noi sarebbero perfino banali, viste e straviste, per loro si rivelano novità incredibili e funzionano tantissimo. Alla stessa stregua ciò che qui è considerata una performance di ricerca e ci potrebbe stupire, li non sarebbe comprensibile e quindi un vero fiasco.

Cosa riconoscevi in questi occhi, sia qui che li’, sia vent’anni fa che adesso? cos’e’ adesso per te il pubblico? una massa informe di occhi e mani che applaudono o vedi altro?

Quello che ho sempre visto è la voglia matta di essere stupiti, che sia dietro una risata o in un numero di abilità… vedo nel pubblico la curiosità, la voglia di vedere qualcosa di diverso dalla realtà di tutti i giorni, di sentirsi protagonisti perché “c’erano” e poter raccontare “ho visto uno che faceva… !” Il circo è l’arte che più soddisfa questa voglia di stupore, di unicità e che spesso lascia tutti a bocca aperta e con il fiato sospeso. Questo è quello che ho notato da noi e negli altri continenti che ho visitato, e credo che questo è ciò che il circo dovrebbe continuare a fare, offrire lo straordinario

Regalare un sorriso, un momento di ilarità… cosa hai trovato anche al di là di questo. Cosa ti ha sorpreso in questi anni? Ricordi alcuni episodi in cui il pubblico ti ha sorpreso, meravigliato?

A differenza degli spettacoli al chiuso come in un tendone o in un teatro, dove l’artista può scegliere di non entrare mai in contatto con il pubblico grazie alla famosa quarta parete, nello spettacolo di strada ogni volta è diverso e imprevedibile. Non sai mai se il tuo spettacolo, per quanto rodato e lavorato, riesca ad avere lo stesso impatto. In strada hai mille variabili che possono condizionare quello che proponi. Puoi sbagliare il momento, scegliere la piazza sbagliata e il tuo spettacolo non funziona. Nonostante tanti anni di esperienza sono errori che puoi sempre fare. La cosa che ancora oggi mi stupisce e riuscire a creare quella bolla magica in cui riesci a bloccare la gente a ottenere la sua fiducia e a produrre un momento unico, inaspettato e indimenticabile.

Più di una volta ricordo momenti di stupore. Varie volte mi è capitato quando giravamo con lo spettacolo Bacch&Toni, quello è stato il periodo in cui ho fatto tanta strada e ce ne sono successe di ogni. Spesso ci siamo trovati a fare tanti km, arrivare stanchissimi in un paesino, cercare con cura la piazza e la gente, proprio per non fare errori, e nel momento che ritenevamo il migliore per partire ritrovarci solo due o tre persone a passeggio. Ci siamo forzati ad iniziare lo stesso, contro tutto, e quelle due tre persone nel giro di 10/15 minuti sono diventate 200. Spesso ci è capitato in Basilicata, in paesini dove non c’è molto passeggio, ma la voce gira velocemente e una volta iniziato lo spettacolo ti accorgi del veloce tam tam e in pochissimo tempo tutto il paese era lì per noi. Una volta una persona, al momento del cappello, ci ha detto, “soldi non ne ho ma ora vi porto un regalo” dopo 5 minuti ci ha regalato un monociclo. Puoi immaginare la nostra meraviglia nel ricevere un monociclo in regalo in un paese delle montagne lucane, dove il mezzo di trasporto più diffuso era ancora il calessino con l’asinello.

Anche con i GSF ci siamo trovati in situazioni del tutto inusuali e inaspettate. Dopo aver fatto uno spettacolo nel mercato di Adis Abeba o nella discarica di Salvador di Bahia non puoi immaginare le porte che ti si aprono. Dopo lo spettacolo entri di diritto nella loro comunità, diventi uno di loro, anzi un loro ospite. E ci è capitato spesso di essere invitati a casa delle persone, che a tutti i costi volevano condividere con te quel poco che avevano, per la gioia di conoscersi e di stare insieme. Una volta abbiamo diviso 3 banane in 16 persone!

Tutti questi momenti che hai avuto col pubblico …spesso voi chiamate volontari in scena, coinvolgete il pubblico in gag…cos’altro avresti voluto o vuoi realizzare con il pubblico che non hai osato/ provato, al di là del coinvolgerlo in una gag in cui si presta? O preferisci mantenere questo alone di mistero dell’artista che arriva e poi a fine spettacolo riparte?

Sinceramente ancora non lo so, oltre a prendere volontari nello show mi è anche capitato di dover spostare interi pubblici da un ambiente all’altro per degli spettacoli in diverse location, ed è molto divertente.
Al momento durante il mio numero di Ping Pong prendo una volontaria che fa quasi tutto il numero con me, e mi sta capitando spesso che si crei un rapporto che va al di là dello spettacolo. Qualcuna mi scrive, qualcun’ altra torna a vedere il mio numero e si relazionano con me come se fossi un loro vecchio amico. Dopo aver condiviso insieme quei 5/6 minuti nella totale stupidità del numero di ping pong mi vedono come un amico con cui dire cretinate, come se il mio ruolo di Clown continuasse anche nella vita di tutti i giorni. La cosa è bellissima e mi fa molto piacere, forse è anche merito della tecnologia e dei social, ci si ritrova più facilmente e si ha la possibilità di potersi risentire.

Nello spettacolo e nel personaggio che porto in scena non sono affatto misterioso, anzi tutto l’opposto. Sono me stesso e svelo una parte di me che normalmente nella vita di tutti i giorni fa fatica a uscire. Sono una persona molta riservata e tranquilla, forse anche timida, e fare spettacolo per me non ha mai voluto dire mettersi una maschera per nascondersi, ma cogliere la possibilità di tirare fuori una parte del mio carattere, quella da protagonista, da direttore di orchestra che credo sia dentro ognuno di noi

Tentando un salto stratosferico, adesso che invece di fare il cerchio devi fare il cerchio per un festival e fare venire le persone a vedere spettacoli di altri artisti, anche diversi dai tuoi?…con che occhi diversi vedi ora il pubblico? 

Ogni volta che mi occupo della direzione artistica di un evento è una bella scommessa. Devi sempre fare i conti con il tuo gusto personale e quello del pubblico. Aver fatto spettacolo per molti anni mi aiuta molto a capire le esigenze del pubblico. Durante uno spettacolo di strada devi sempre avere gli occhi sul pubblico, sempre molto variegato e casuale, e capire come modulare il tuo show affinché possa piacere a tutti, anche ricorrendo ad espedienti che non ti entusiasmano. L’organizzazione di un festival è un po’ la stessa cosa ma in grande, cerchi di proporre al pubblico una varietà di spettacoli che abbiano stili e chiavi di lettura diverse. Cirk Fantastik è un festival di circo contemporaneo che cerca di proporre spettacoli innovativi e di ricerca. Il circo contemporaneo, anche se in espansione, è un’arte performativa ancora poco conosciuta ed è molto difficile far cambiare le aspettative in persone che ancora si immaginano torte in faccia, tigri ed elefanti. Nel corso degli anni l’interesse sta aumentando, grazie anche alla diffusione sul territorio nazionale, ma la strada è ancora lunga. Grazie a spettacoli pluridisciplinari nei quali allo stesso tempo c’è ricerca creativa, drammaturgia, studio delle luci, musica dal vivo, danza, la tecnica circense rimane protagonista, ma non più l’unica. L’obbiettivo è quello di incuriosire e portare sotto un tendone di circo diverse tipologie di persone, dalla famiglia, all’appassionato di teatro di ricerca, di danza o di innovazione musicale.

L’edizione di quest’anno ha avuto un’inaspettato cambio di location che ci ha aiutato tantissimo nel poter arrivare ad una fetta di pubblico che per noi è molto interessante. Ci siamo spostati da un parco di quartiere al parco della città che spesso ospita eventi per ragazzi e giovani che solo per il fatto che fossimo lì hanno preso in considerazione di venire a vedere qualcosa. Nostro obbiettivo è quello di coinvolgere la fascia di età tra i 25 e i 45 anni e farla venire al circo con un interesse proprio, e non perché trascinato da qualcuno. Il circo dovrebbe essere visto come un luogo di crescita culturale, dove vedere spettacoli “fighi”, che possono smuovere delle emozioni e dare altri punti di vista della realtà.

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Jenny Rombai

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intervista di A.R. in occasione del No Theater Festival, Certaldo, settembre 2015
Ciao Jenny, cominciamo dal modo in cui approcci il tuo pubblico…

Prima di entrare in scena li ascolto, cerco di entrare nella loro dimensione, ascolto che rumori fanno, se sono agitati o se stanno zitti zitti, cerco di instaurare questa atmosfera di ascolto reciproco. Con il pubblico condividi il momento scenico, che è uno dei momenti più intensi della nostra vita, diverso da quelli banali. Per me la scena è questo, un momento che rende la vita più grande, in cui la vita perde la sua banalità. Un’esperienza che condividono tutte le persone presenti in quell’occasione, artista e pubblico, e che facilita lo scambio. Sono abbastanza preoccupata per come vedo evolvere questo continente in questo momento, ed è soprattutto una preoccupazione di perdita di sensibilità, perché riceviamo molta informazione, che ci arriva “precotta” e a ripetizione: è tutto piatto, le persone si disabituano alla ricerca… per me una delle missioni dello spettacolo dal vivo è di risvegliare questa sensibilità

Avverti quando l’emozione arriva al pubblico forte e precisa ?

Ogni spettacolo, ogni momento, ogni pubblico è diverso… lo spettacolo che sto proponendo adesso è una creazione nuova, che si spinge molto nella ricerca. Ho debuttato in Francia questa estate, sono esibita davanti a un pubblico di giovani alternativi, poi in un tendone a Chalon, e ha funzionato bene. Ero molto felice, perché è una proposta che prende dei rischi: non è lo spettacolo che portavo in strada per 10 anni, dove so perfettamente come coinvolgere il pubblico… ero stanca di fare le stesse cose… qui al No Theater Festival è stato molto difficile, e anche gli amici mi hanno detto che non posso bestemmiare in scena, che non posso dire “porca puttana”, ma a me le puttane sono simpatiche! In ogni caso la sfida è sempre capire chi hai di fronte… perché è una proposta che vuole provocare, risvegliare domande, rimettere in questione valori cui siamo abituati ad appoggiarci

In genere quando fai uno spettacolo che tipo di comunicazione preferisci passi al pubblico prima di poter assistere allo spettacolo? cerchi un controllo totale sulla comunicazione?

No, non controllo, ho lasciato perdere… ho smesso di arrabbiarmi se mi presentano in un modo che non mi corrisponde appieno!! A volte i programmatori spingono molto su queste presentazioni per attirare il pubblico, però alla fine non sono sicura di quanto spesso il pubblico legga tutte queste informazioni, di quanto queste lo influenzino. Qui è stato molto bello con gli organizzatori de I Macelli, sono proprio appassionati, anche i tecnici…appena ti trovi con uno motivato, wow… ci sono festival in cui non incontri nemmeno gli organizzatori!! Qui sono stati molto bravi, perché hanno riportato un testo che ho scritto io… l’hanno proprio ripreso…a volte diventa difficile quando l’organizzatore scrive quello che gli pare, ma credo faccia parte delle sue libertà…

 

E cosa cambia quando sei seduta con il pubblico, da spettatrice? le emozioni sono diverse?

Cambia tutto! è l’altro che fa la proposta e io lo seguo. Non mi sento pubblico, il mio sguardo risente di tutto quello che conosco, è un sguardo diverso rispetto a qualcuno che sa meno. Mi ritrovo che non rido quando li altri ridono, o rido quando non ride nessuno, o applaudo quando gli altri non lo fanno, sono cose che mi accadono spesso…quando lo spettacolo mi piace sono contenta… a volte invece sento come una compassione per l’altro, quando sta andando proprio male…mi dico “oh poverino… il pubblico non conosce l’adrenalina che vive l’artista…si, certo, puoi commuoverti per qualcosa, ma non è mai la stessa cosa.
A volte preferisco gli spettacoli amatoriali, perché vedo che gli artisti in scena sono totalmente coinvolti e mi commuovono di più di un professionista, che magari ha un giornata brutta e fa lo spettacolo inserendo il pilota automatico. Tutto funziona agli occhi del pubblico, però io lo vedo che non c’e’… e questo mi annoia; dico “ok sei bravo, lo fai da 30 anni, l’hai fatto preciso bene bravo”, ma non mi emoziona.
Poi certo quando vedo gente che fa proprio quello che faccio io mi emoziono tanto… se so di un bravo artista che fa il filo molle vado a vederlo… poi se non mi piace dico “noooooo, merda, ha fatto un disastro col filo molle e non va bene…ora tutti si annoieranno col filo molle!”
Conosci tutte le strategie, c’è più analisi, ti fai domande che il pubblico in genere non si pone. Ma mi me piace anche guardare uno spettacolo senza attivare tutti questi filtri, viverlo più liberamente.

Scegli il tuo pubblico o sei pronta a incontrare tutti i pubblici?

A me piace molto incontrare tutti i pubblici diversi, certo…mi piacerebbe che tutti possano accedere allo spettacolo, però non voglio che sia un momento leggero, tutto all’insegna della felicità… parto anche da questa considerazione: cosa mi piace vedere quando sono anche io parte del pubblico? A me piace anche quando piango, o quando qualcuno mi sbilancia da quello cui sono abituata, quando qualcosa mi colpisce, o mi fa un effetto in ogni caso. Al momento il mio nuovo spettacolo è ancora un work in progress, e anche questo fatto di parlare in una lingua diversa da quella del pubblico, in modo in cui si utilizzano le parole, è una storia lunga, anche culturalmente, a cui mi interessa lavorare.
Ma più che pubblici sono i contesti che contano. Ci sono situazioni in cui non vorrei trovarmi, tipo la fiera con la giostra, o la banda fragorosa che passa lì vicino mentre sei in scena, il tram che passa dietro… o nel supermercato in cui ti dicono anche cosa devi fare… ci sono situazioni che sono una sofferenza scenica di sicuro, e quello non è bello per nessuno, né per il pubblico né per l’artista…

Ci racconti uno tra i tanti spettacoli che hai fatto che ti ricordi ancora, che ti ha colpito per questa empatia con il pubblico, per questa comunicazione, che ti ha emozionato? dov’eri? e perché lo ricordi ancora?

La maggior parte degli spettacoli li ho fatti per strada e la strada e’ piena di situazioni eccezionali, credo che i momenti più forti siano lì… ah si mi ricordo! Nel tendone di El Grito a Pennabilli. Quando cominciai il numero ci fu una tempesta fuori e andò via la luce. C’erano solo le lucette di emergenza e io stavo lì in alto sul filo. Tutto buio, si sentiva la tempesta di pioggia che batteva sullo chapiteau, e noi tutti sott’acqua, sembrava stessimo in un sottomarino, ed è stato un momento in cui ho sentito fortissimo il pubblico. Ho sentito molto forte lo stare tutti lì, non so cosa hanno vissuto le persone… io continuavo il mio numero sul filo, con le lucette basse, e dopo un pò mi si abituano pure gli occhi. Ma comunque tutto il pubblico era rimasto al suo posto, é stato super speciale… anche una volta per strada si è messo a piovere proprio nel mezzo al numero, io, il filo e la gente, tutti sotto la pioggia, nessuno si muoveva… in questi momenti in cui accade l’imprevisto diventa più forte il legame…

Marco Paoletti

La mia relazione personale col pubblico è cominciata in posti dove mi lasciavano fare quello che volevo. Le convention di giocoleria sono un mondo libero e autodidatta, con una relazione molto diretta con il pubblico, dove gli artisti sono anche i propri costumisti, scenografi, registi e in questo mondo impari tantissimo.
Nella relazione tra pubblico e attore c’è un processo terapeutico in corso. Quando ho cominciato a fare spettacoli ero io che mi nutrivo dell’energia del pubblico; avevo delle domande e le risposte mi arrivavano attraverso il pubblico. Ho capito col tempo che vado in scena per rispondere a delle domande. Oggi per esempio la domanda è cosa è il tempo, per questo porto in scena il metronomo. Per me la velocità della scena, moltiplicata per gli occhi degli spettatori, per il tempo che scorre creano sicuramente un’equazione che regolano la catarsi dello spettacolo. Avere un certo numero di persone che ti seguono in scena e che puoi considerare pubblico regala alla performance una sua cadenza, ma quando si entra in luoghi come lo stadio di SOCII, in occasione delle Olimpiadi invernali, nella dimensione della folla, lì percepisci questa figura quasi mostruosa che è un pubblico di 40.000 persone, dove un secondo prende l’intensità di 10 anni.
Adesso sto lavorando con la Cie Finzi Pasca, dove hanno una filosofia molto speciale che si chiama “teatro della carezza”, con l’idea di fare al pubblico dei massaggi emozionali. Andiamo a cercare il pubblico in un modo particolare, in modo che il pubblico possa avvicinarsi a noi e ritornare. Facciamo lo spettacolo per una sola persona, per questo ci chiedono di cercare una sola persona tra il pubblico e immaginare di fare lo spettacolo solo per lui. Ma non è una persona fisica. Nel monologo uno degli attori dice: se tu non sei qua ogni sera io ti invento. Tu sai che io faccio questo così tu se orgoglioso di me. Cosa è la verità o cosa non è verità, la verità sfugge, il pomodoro al posto del sangue, il toro, gli apparecchi che volano, le cose accadano, la verità è relativa e se te non sei qui io ti invento ogni notte.

Applausi, risate, segnali molto evidenti della partecipazione del pubblico, ci sono tanti occhi, siamo tutti insieme. Quando ti guardano e stai facendo qualcosa in scena e dopo 200 rappresentazioni de la Verità non sono ancora sicuro di dove si costruisce questo momento di grande condivisione. Quando hai delle scene movimentate è la musica e l’azione che ti tengono, ma quando hai dei momenti più intimi, lì allora il pubblico o piange o dorme! Finiamo tutti abbastanza stanchi, con una concentrazione molto alta. Per noi non è prioritaria l’acrobatica, ma il lavoro di gruppo, la concentrazione, essere un gruppo unito sul palco, questa è anche la magia di questa compagnia. L’ultima domanda dell’attore è “come vuoi che si senta la persona che ha appena visto il tuo spettacolo e se ne sta andando a casa?” e da questa risposta parte tutto, il tuo costume, la tua performance, etc. Questa è la cosa più importante per il nostro lavoro.

Nel circo abbiamo questa possibilità, di fare qualcosa di sensazionale, di impressionante e poi aprire ad una carezza, stupire, catturare l’attenzione e poi poterlo portare in un sogno, come in un fiume, con un ritmo di percorso che dura due ore. Ci sono più di 234 movimenti di telone e luci nello spettacolo La Verità, le luci sono incredibili, ma tutte queste cose servono a trasportarci in un mondo onirico, in una dimensione fantastica.
Nella Cie Finzi Pasca c’è una relazione col pubblico ma mi manca un incontro, una comunione finale col pubblico, scendere in platea a fine spettacolo e rispondere alle sue domande, al suo abbraccio. Il pubblico è lo specchio dello spettacolo, e la scena è come un fuoco che brucia, come attore non devi fare molto in scena, perché sei già in un luogo dove sei messo in evidenza, così devi scendere un gradino per andare incontro al pubblico, e questo diventa un passo importante.
Una cosa è il pubblico di strada, o quello di circo o di teatro, tutti vogliono sensazioni diverse, a volte è disunito, altre volte, come a Budapes,t vanno in sincrono ad ogni applauso. L’entertainment è una possibilità per generare una domanda nell’artista e nel pubblico, ma non è l’unica possibilità. Oggi, dopo 4 anni di attività con scuole e bambini scopro che quello è il mio pubblico preferito al momento, perché sono molto semplici e diretti.

www.maggler.com

Osvaldo Carretta

di Stefano Corrina

Il primo contatto con il mondo del circo contemporaneo avvenne, in qualità di spettatore con il Cirque Bidon quando ero ancora ventenne, parlo del 1979. Prima di quel momento, sempre come spettatore, avevo assistito a spettacoli teatrali. Mi riferisco sempre alla seconda metà degli anni ’70, erano per me gli ultimi anni delle superiori, ebbi la fortuna di assistere a spettacoli di artisti del calibro di Dario Fo, Edoardo de Filippo, Umberto Orsini, Beppe Barra. In quegli stessi anni iniziavano, a poca distanza da casa, i primi festival di Santarcangelo, ed anche lì fu per me, occasione di incontrare quelle che furono le prime ravvisaglie di un nuovo modo di fare teatro, in strada.

Da spettatore mi colpiva moltissimo la forza di un artista di coinvolgere tante persone, di tenerle, con il fiato sospeso… c’era una forte curiosità verso questo mondo che ritenevo ancora lontanissimo da me… non pensavo che un giorno sarei potuto diventare artefice o autore di un evento…

Poi ci fu questo incontro magico con il Cirque Bidon che si piazzò a 200 metri da casa mia Fermignano, vicino ad Urbino, dove abitavo ancora con i miei genitori (era il 1979) e conobbi questa nuova realta’ che stava nascendo, proprio i pionieri di quello che sarebbe diventato poi, il circo contemporaneo… All’epoca frequentavo l’Isef, per diventare insegnante di educazione fisica, e nemmeno lontanamente avrei pensato che un giorno sarei entrato a far parte di quella esperienza. Evidentemente quella magia mi colpì, come una sorta di virus contagioso che si mantenne in stato di incubazione e per poi esplodere un po’ di anni dopo… In quella occasione, tutte le sere ero a vedere il loro spettacolo, li conobbi, restavo a mangiare con loro, passavo a trovarli durante il giorno. Fu per me il primo contatto con questo mondo che non capivo neanche a cosa potesse corrispondere… Era un periodo in cui si cercava l’utopia e io la vidi passare con quei carrozzoni e quei cavalli… Mi emoziono ancora a pensarci.. Poi, dopo tredici anni, per caso, o per gioco, mi ritrovai a esibirmi ed iniziare a fare spettacolo….

La prima volta che mi esibii, fu buffo. Mi trovai di fronte questa massa di persone, senza aver avuto nessun tipo di formazione e di studio di tipo teatrale, ne circense, ma nello stesso tempo mi sentivo addosso una sorta di serenità che mi faceva pensare “io sono qui (sulla scena..), voi siete li’ (seduti a guardare..) quindi il passo, io l’ho fatto”. Ovviamente il passo che stavo facendo era nella direzione del cambiamento che stavo imprimendo alla mia vita, verso qualcosa di nuovo, verso la dimensione magica del mondo dello spettacolo…
Poi in seguito iniziai una formazione, corsi e scuole di teatro prima, di circo poi, cercando tutto quello che sarebbe potuto servirmi per apprendere, studiare, comprendere su come stare in scena.

Il pubblico?!?… Non è facile riuscire a definire la relazione con il pubblico… Il pubblico è qualcosa di imprescindibile, di assolutamente necessario, in qualche maniera lo scopo dello spettacolo. Creare una relazione di intimità, sorprendere e farsi sorprendere, cercare di produrre il sorriso e la risata. Per quanto mi riguarda, quello che cerco con il pubblico è di produrre una meraviglia, non tanto per le poche (o tante) abilità che metto in mostra, piuttosto per i paradossi e le assurdità che si vengono a creare proprio in questa relazione. E la meraviglia è anche la mia, quella di sorprendermi per la meraviglia che produco. Poi in strada il pubblico ha questa particolarità di essere molto variegato, di essere composto da diverse fasce di età, da diverse estrazioni sociali e culturali, da diverse provenienze geografiche. Ed ogni volta che mi esibisco questa diversità mi arricchisce, mi gratifica, mi rende felice.

Nel mio nuovo spettacolo, “Osvaldo e il suo Doppio”, fresco di prima nazionale, sto cercando di far conciliare la leggerezza della risata e del divertimento con temi di maggior profondità, quali la relazione con le mie radici e con mio padre, e quanto di questa relazione è entrata a far parte di Osvaldo, il pagliaccio che rappresento. Ovviamente è una scommessa appena iniziata.

Episodi in cui qualcuno del pubblico che assiste ad un mio spettacolo poi diventa mio amico e addirittura con cui condivido pezzi importanti della mia vita ce ne sono stati. Per esempio Chiara Bedeschi assiste ad una delle mie primissime esibizioni, ci conosciamo due anni dopo da quello spettacolo e decidiamo di collaborare. Nasce la coppia artistica Osvaldo e Mimì. Un altro incontro molto importante con una persona che ha fatto parte del pubblico durante un mio spettacolo è quello con Salvatore Frasca. Lo spettacolo era all’interno di una delle prime edizioni di Ibla Busker’s, ma anche in quell’occasione la conoscenza con Salvo avvenne solo un paio di anni dopo. Con lui la collaborazione è stata nel condividere la convivenza, per dieci anni, nello spazio di residenza artistica che poi è diventato Porto Banana. Poi, sì, ci sono stati moltissimi altri incontri con altri artisti che in qualche modo sono stati preceduti dall’essere stati uno spettatore dell’altro e viceversa, così come incontri con persone che non facevano parte del mondo dello spettacolo.

Il pubblico non è sempre uguale, ci sono differenze tra il pubblico di un festival, quello che si può incontrare in strada facendo cappello, quello che va a teatro, così come ci sono differenze tra le diverse latitudini della penisola o del mondo. Di base c’è una differenza di disponibilità all’ascolto, poi se riesci ad attraversare la corazza di schermo e ad instaurare una relazione di intimità le differenze svaniscono e il pubblico diventa tutto uguale ovunque. E’ compito del pagliaccio quello di usare un linguaggio universale che attraversi tutte le diversità, culturali, sociali, economiche e di età.

Continuare ad essere anche spettatore è assolutamente necessario per poter continuare ad evolvere e per poter accogliere sempre nuovi stimoli di ricerca. Da un lato come pubblico sono diventato più esigente, faccio più fatica a sorprendermi, per contro cerco sempre di togliermi il giudizio di dosso e di restare nell’ascolto il più aperto possibile.

Penso che la relazione tra spettatore e attore sia qualcosa di antico, di arcaico, di primitivo, è qualcosa che appartiene alla storia dell’umanità, legata al bisogno di sentire qualcuno che racconti una storia ed al bisogno di qualcuno di raccontare una storia. Per questo penso che oggi più che mai ci sia bisogno dello spettacolo dal vivo, per continuare a ricordare le nostre radici.

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