
IL CATALOGO E' QUESTO? - Prove di dialogo tra artista e città
Articolo tratto da Juggling Magazine n. 57 dicembre 2012
Dell’insieme (se esiste) di pratiche di cui si occupa questa rivista (quali? Quante?), comuni denominatori sfuggevoli e insidiosi sembrano l’infedeltà alle usuali nozioni e luoghi di “spettacolo” e un dialogo interro- gativo con l’ambiente metropolitano. Varie suggestioni sono nate dal fertile incontro “Inter(r)iviste”, promosso dall’Institut Fran- cais di Napoli, in cui la collaborazione tra i periodici Juggling Magazine (Italia) e Strad- da (Francia), ha dato vita a un’esplorazione sui legami tra arti di strada e urbanistica. Poi, il gioco delle relazioni, delle teorie identitarie, fino alle circonvoluzioni attorno al sentirsi “contemporaneo” e a qual grado, può scatenarsi infinito. Il catalogare può servire ad affermare identità, a rafforzare riconoscimenti giuridici o istituzio nali, a distinguersi da alterità sempre troppo vici- ne e lontane, a illudere su sicurezze. Il dub- bio invece, generando domande, fomenta dialogo ed energia creativa. Se giocolieri, clown, acrobati possono rassicurare come una primordiale trinità, essa è solo l’inizio di incroci incerti e definizioni trasversali: compagnia, collettivo, scuola, corso, asso- ciazione, residenza, federazione, festival, happ ening, concorso, raduno, infanzia, clown-dottore, tecniche aeree, regolamen- ti, parkour, writers, skaters, operatore, for- matore, stage, medicina circense, arti aeree, teatro-circo, intensivo, avanzato, intermedio, principiante...: tanto per butta- re qualche termine per aria, di quelli che potrebbe riunire l’utopica etichetta “arte urbana”. Viceversa, il gioco delle apparte- nenze può porsi come risposta rassicuran- te nel tentativo di catalogazione concreta dello “spettacolo popolare”, definizione di recente usata per un’udienza in Vaticano: settemila tra famiglie circensi, madonnari, bande municipali, domatori, padroni di cir- chi, imprenditori di noleggio strutture, cir- coli magici, giostre a cavalli, burattinai, pupari, mestieri itineranti, migranti. Una coesione sotto l’ala del culto religioso dominante, forse necessaria a chi vuol riba- dire un rapporto con la società da minoran- za quasi martire, in un gioco contradditto- rio con la necessaria anarchia spirituale dell’”arte urbana”. La festosa circostanza, partendo dall’ecumenico invito di utopia di appartenenza ad un unico mondo, ha determinato, con l’assenza (naturale e non polemica) dell’”arte urbana” di cui sopra, due universi paralleli, probabilmente con- notati da distinte problematiche, da diverse forme di relazione con la società e quindi di senso della propria arte. Se in questa millenaria galassia c’è stata una novità recente, da mezzo secolo e più ciò si ha nel diverso rapporto dell’artista circense/di strada/popolare/(dis)urbano con la collettività. Egli è stato per secoli corpo estraneo alla comunità, dunque in un rapporto acritico, apolitico e parassita- rio rispetto a una società verso le cui ten- sioni e problematiche il nomade non pro- vava grande interesse: non a caso in varie epoche si deve alla borghesia, nei panni dell’avanguardia o della drammaturgia, la trasformazione del saltimbanco in disegno artistico, satira, segno politico. Ma dagli anni ’60 circa, la novità è che il rinnova- mento delle arti circensi ha come suo principale segno la trasmissione non dina- stica e la genesi dei suoi protagonisti all’interno della realtà urbana: borghese, ma anche proletaria, nelle sue varie espressioni ludico/artistiche (studentesca, sportiva, intellettuale). Da quell’epoca, circo e spettacolo di strada diventano anche un atto critico, per il semplice fatto che, oltre al virtuosismo, tentano di veico- lare contenuti artistici compiuti, poiché per la prima volta ad opera di membri della società costituita: il bisogno primario di rapporto interrogativo con la società proprio a qualunque artista; un’estetica del dubbio che invece non diviene mai una necessità per la popolazione dello spettacolo nomade dinastico. Essa al con- trario ha sempre coltivato profili e pro- getti apolitici, determinando anche una immutabilità del dialogo artistico, e tale sicurezza, in quanto “tradizione” e trasmissione di valori “universali”, ne ha garantito la sopravvivenza fino allo status giuridico di “funzione sociale”. In realtà l’universo del circo e del saltimbanco è stato detentore per secoli della trasgressione e del dub- bio (ne riparleremo). La trasgressione temporanea del tendone diviene oggi di circostanza, quanto la prevedibilità/irre- golarità di una ricorrenza stagionale o religiosa, e non coltiva consapevolmente dubbi; il circo cano- nico resta trasgressivo al massimo nella visione ancora malintesa di una para-etnia incontrollabi- le a cui si attribuiscono strascichi di illegalità o i sensi di colpa dell’integralismo animalista (ne riparleremo); mentre la trasgressione dei writer, di un raduno di giocolieri, di una scuola di piccolo circo o di un gruppo di skater rompicoglioni, che la città la abitano, è invece una volontà di dialogo politico/creativo con lo spazio e i contenuti urba- ni, la consapevolezza di interrogare il paesaggio sociale con la costruzione di un linguaggio o di un genere, attorno ad altre scale di “valori”. E forse per quello che da una parte c’è il tentativo volen- teroso, e molto italiano, di unificare tutto nell’edi- ficazione cristiana di una cosmologia dello spetta- colo “popolare”, sotto l’egida della Chiesa (anche qui concretizzando uno scambio politico nella pro- tezione dell’universo itinerante e fragile); dall’altra il rifiuto gentile da parte dei nuovi dei saltimbanchi “urbani”, per i quali il laicismo è valore garante del dialogo critico e creativo con la città, garanzia dello status di artista. L’espressione “arte urbana” ha in sé un implicita dichiarazione critica e di dialogo nella volontà di interrogare e inventare, quanto rassicu- rante è quella di “spettacolo popolare” in quella di proteggere e conservare. Entrambe ricchezze neces- sarie, l’una coltiva un’autodeterminazione creativa, eventualmente clandestina, l’altra ambisce al rico- noscimento ufficiale e a una mai sufficiente “digni- tà”. Involontario paradosso è la coincidenza, nel giorno di tale udienza papale, del lancio del nuovo sito da parte di Leo Bassi di una religione laica strut- turata sui princìpi del buffone e avente come dogma il dubbio (www.paticano.com), in qualche modo riaffermato come energia primaria dell’arte, nel gui- dare il dialogo tra l’artista urbano e la città; pur sem- pre quel Bassi che fa della tradizione circense, in tutta la sua fierezza, il motore del proprio progetto. Ma ne riparleremo. jugglingmagazinenumero57dicembre2012 7

NASI ROSSI FUORI PISTA
Percorsi e fughe del clown prima e dopo il circo | di Raffaele De Ritis
Se l'icona del clown dal naso rosso, abiti larghi e capelli scomposti prende forma nel cerchio della pista (attorno al 1870), la sua longevità va cercata altrove, prima e dopo. Il termine clown (forse da clod, zotico) si afferma nel teatro inglese del Rinascimento, non a caso contemporaneo di Arlecchino: entrambi antieroi selvaggi e diabolici. Il contadino contro il borghese, il servo contro il padrone, la cultura agreste selvatica (astuta e insieme ingenua) contro quella urbana più composta; l'innocenza dell'infanzia contro la compostezza dell'età adulta; l'anarchia contro i codici. Lo scemo del paese che però, fuori dagli schemi, la sa sempre più lunga di tutti. È il contrasto atavico dell'umanità, tragico ma dagli esiti comici (il padrone irriso dall'anarchia al potere), che nel Novecento circense, secolo di conquiste e contrasti sociali, prenderà forma negli archetipi clowneschi di “bianco” e “augusto”.
Agli albori del circo moderno, fu la contaminazione del clown inglese con le maschere italiane a creare il clown ottocentesco (con il pioniere Joe Grimaldi) che, prima ancora dell'affermazione nel circo, era un personaggio fiabesco nato per il palcoscenico: non disdegna la bottiglia, con lo stato di ebbrezza che è una buona scusa sia per l'acrobazia che per la bocca e il naso tinte di rosso, ben visibili a distanza. Nel circo il clown sembrò trovare senz'altro la propria dimensione ideale; in realtà vi viene trattenuto a malapena per un secolo, tentando spesso la fuga. Ma è sicuramente grazie al circo se esso prende sembianze e struttura. Anche quando il clown rimane fedele alla pista, la sua ombra mitologica scappa altrove: nella poesia con Baudelaire, in pittura con Picasso e Rouault, nella musica con Leoncavallo, nella filosofia con Starobinski e Bergson, fino al labirinto infinito di stereotipi tra cinema e romanzo.
È verso il 1970, dopo circa un secolo dalla propria nascita circense, che il clown ritrova una propria vita fuori dalla pista
Inizialmente è il varietà, già verso il 1880, a offrire ai nuovi clown del circo maggiori stimoli e forme; poi l'arrivo del cinema. Attorno al 1910, il cinema muto è un formidabile magnete, che strappa al circo i migliori talenti comico-acrobatici fino ad inventare con essi una delle forme d'arte più influenti dell'umanità. Anche il teatro offre fortune: degli anni '20 e '30 è il paradosso di Grock, il più grande clown di tutti i tempi, la cui carriera si snoda in prevalenza sui palcoscenici e solo saltuariamente in pista, nonostante il suo materiale comico-musicale sia stato squisitamente circense.
È Federico Fellini, sorta di esecutore testamentario, a catalizzare il mito del clown triste addirittura in una visione poetica della “morte del clown”. Una finzione sublime forse ingrata rispetto alla realtà, quando molti clown di circo avevano ancora successo e facevano ridere. Ma sicuramente erano sempre più lontani dalla realtà, con una comicità tenera rimasta a prima della guerra, nella quale della dimensione sociale e poetica di questa maschera resta ben poco.
Se ne accorgono persino alcuni circensi: i Colombaioni, che a contatto con Fellini e Dario Fo mostrano una nuova via teatrale al clown; Leo Bassi, che lascia la dinastia circense per il contatto con la strada e il recupero dello spirito provocatorio, perduto, del buffone. C'era poi Annie Fratellini: negli anni '60 era già “scappata” da una leggendaria dinastia di clown ma per dedicarsi alla musica pop e jazz; nel 1970 fa il percorso contrario, creando un numero di clown per il circo e poi fondando la prima scuola al mondo.
Gli anni '70 a Parigi attraggono da tutto il mondo quelli che reinventeranno l'arte del clown, attraverso un incrocio formativo che rimette in discussione mimo, maschera, gestualità teatrale, creando la nascita del cosiddetto “teatro fisico”: oltre alla scuola Fratellini ci sono quelle leggendarie di Marcel Marceau, Etienne Decroux, Jacques Lecoq, a loro volta legate strettamente al lavoro di Dario Fo e alla riscoperta in chiave contemporanea della tradizione tutta italiana della maschera e della Commedia dell'Arte.
È un'epoca in cui non esiste ancora la logica dei contributi economici. Lo sbocco lavorativo più sicuro è la piazza; la stessa Parigi offre l'occasione per gli spettacoli “a cappello”, dando forma al clown di strada. È la culla da cui nei primi anni '80 nasceranno pionieri come Peter Shub o David Shiner, che verranno raccolti a loro volta in Germania dall'innovativo Circus Roncalli. Oppure la strada offre percorsi itineranti più avventurosi: il Grand Magic Circus di Jerome Savary, o il Friend's Roadshow di Jango Edwards, le prime grandi esperienze internazionali di teatro urbano, in cui il clown dopo secoli tornava ad essere una figura di trasgressione, innocenza perduta, grottesco rivelatore, per un pubblico ormai non solo infantile o familiare, e soprattutto non circense.
Nascono festival e stage: programmazione e formazione si incrociano nel mettere in discussione un meccanismo centrale: la trasmissione del sapere e i metodi di apprendimento. Seppur non sempre con risultati esaltanti, si cerca di slegare la cultura del clown dal sapere dinastico, considerato ripetitivo. Questo sebbene l'ispirazione dei grandi maestri nasca sempre dalla pista. Pierre Etaix, compagno di Annie Fratellini e grande cineasta, alla radice della formazione clownesca moderna, è folgorato dai clown di circo della propria infanzia; lo stesso per lo svizzero Dimitri, la cui scuola sarà decisiva nello “sdoganare” l'idea di clown teatrale.
Da tutte queste nuove fonti, negli anni '80 nasce una formidabile scuderia di talenti clowneschi mondiali che poco o nulla a che fare hanno con l'arte del circo, ma contribuiscono in modo decisivo a rinnovare l'arte del clown e della risata. Ai già citati Colombaioni, Leo Bassi, Jango Edwards e Dimitri, si aggiungono Pierre Byland, Bustric, Bolev Polivka, Gardi Hutter, Johnny Melville (ma solo per citare i più noti). Alcuni di loro, come i Mummenschanz, contribuiranno al rinnovamento del teatro-danza o alla spettacolarità urbana, come Els Comediants; altri, come Maurizio Nichetti, al linguaggio cinematografico.
L'influenza di questa nuova generazione torna fondamentale anche ai clown della pista, incoraggiando i clown del circo a coinvolgere gli spettatori come nel teatro di strada. A comprendere la lezione per primo, e meglio di tutti, è già dagli anni '80 David Larible: un clown di tradizione che dopo il Duemila giungerà a sublimare l'esperienza circense classica in un percorso teatrale, strada osata solo da Grock e dai Colombaioni.
La trasposizione dal circo alla scena ha sempre affascinato anche i clown russi, d'altra parte fin dalle origini legati ai maestri dell'avanguardia teatrale e futurista. Dalla dissoluzione della tradizione sovietica, gruppi come i Litsedei rimescolano circo, pantomima alla Marceau, grottesco felliniano, follia surrealista, poetica chapliniana. È da questo groviglio al margine della pista, tra clown reale e sua metafora onirica, che emerge il genio teatrale di Slava Polunin, col successo planetario Snowshow.
L'abbandono della pista, per poi forse tornarci (Slava è poi passato dal Cirque du Soleil) sembra essere stata una spinta necessaria per mantenere viva l'anima del clown. Così come la nascita del clown circense riduceva in cenere gli stereotipi della Commedia dell'Arte. Trasgredire le tradizioni, “uccidere” il padre accompagnano ogni forma di rinnovamento artistico. Ma forse, è proprio l'amore profondo per le tradizioni e la loro forza ad essere il vero segreto per trovare ogni volta una nuova contemporaneità.
Articolo pubblicato su Juggling Magazine, n. 105, dicembre 2024

LE ALI DEL CIRCO
Due secoli di trapezio oscillante | di Raffaele De Ritis
È un paradosso che il brivido dell'oscillazione sia legato a un attrezzo circense nato per conquistare la staticità.
Il “trapezio” è un'invenzione ginnica attribuita al Colonnello Francisco Amoros, passato alla storia per aver codificato l'educazione ginnica nei primi decenni dell'800. La sua idea era quella di migliorare il “triangolo da palestra”, troppo mobile: “La prima cosa che feci, fu di impedirne la mobilità costante e funambolica, pericolosa senza necessità. (…). Invece di unire le corde in un solo anello (…), le piazzai a una distanza di 30 o 40 centimetri, risultando nella figura di un trapezio, nome che diedi a questo strumento”.
Mobilità “costante e funambolica”: per un educatore militare, l'oscillazione restava roba da saltimbanchi. E in effetti è da cercarsi nelle fiere l'origine di questa spettacolarità. Alla metà del '600 iniziano ad apparire in Europa stampe di acrobati da fiera, chiare celebrità (soprattutto olandesi), che a vario modo si cimentano con l'uso della corda. Strumento pratico e versatile, la corda può essere tesa tra due alberi, tra due cavalletti, a qualunque altezza. Dalla danza sulla corda, e dall'osservazione dei primati sulle liane, iniziano a codificarsi le figure circensi a metà di quelli che saranno i repertori del “filo molle” (e poi slackline), della corda volante e del trapezio oscillante: scivolate, prese per i talloni, equilibri sul bacino, volteggi in brandeggio.
L'invenzione del Colonnello Amoros nel frattempo entra nei circhi ottocenteschi come “trapezio fisso” (con un vocabolario pressochè statico di equilibri e forze), ma non resiste lo stesso alla tentazione del movimento. È un palestrante di Tolosa, Jules Leotard, che nel 1852 mette a punto “la corsa ai trapezi”, progenitrice del trapezio volante: con una rincorsa, l'atleta salta su un primo trapezio e con lo slancio ottenuto può gettarsi per qualche istante nel vuoto prima di afferrare il secondo. In pochi decenni le grandi altezze, la rete, l'introduzione dei porteur costruiranno uno dei miti più longevi del circo. Ma quella dei flying trapeze é un'altra storia.
Nel corso del Novecento, i numeri di trapezio singolo assumono varie declinazioni, in particolare con la diffusione del “trapezio washington” (dal suo inventore, il trapezista H.R. Washington, attorno al 1870) dedicato agli esercizi di equilibrio. Alcuni di questi numeri presentano anche figure di oscillazione mozzafiato: come nel caso della ineguagliabile Pinito Del Oro, la più grande di tutti i tempi, attiva in tutto il mondo negli anni '40 e '50, con brandeggi in equilibrio sulla testa o sulle punte dei piedi; o dei fratelli Larible negli anni '60, in equilibrio sulla testa su due rispettivi trapezi in movimento, altalenanti l'uno dentro l'altro come due pericolosi pendoli giganti.
Negli anni '50 iniziano a diffondersi soliste e solisti che si dedicano alle acrobazie in oscillazione. Una sorta di pioniera fu negli anni '30 l'australiana Winnie Colleano: il suo numero solista sfruttava essenzialmente i volteggi tipici del trapezio volante (con la rete di protezione), concludendosi con un salto nel vuoto dal trapezio a una corda verticale. Il numero più originale e coraggioso, mai più eguagliato, resta quello del Rose Gold Trio: due muscolosi porteur a testa in giù tenevano le due corde del trapezio, sul quale Rose si appendeva ai talloni per volteggiare nel vuoto.
La figura più iconica resta forse Miss Mara, unica nel conciliare la suspence del rischio autentico con la grazia e il carisma di una diva operistica. La sua lenta scivolata in brandeggio sulle gambe fino ai talloni resta un momento della storia del circo. Questo tipo di numero ispira anche colleghi maschi, come Gerard Soules, poi la superstar Elvin Bale “The world's greatest daredevil” e tutta una scuola americana in voga tra gli anni '70 e '80. Bale, (come in seguito Mark Lotz e Mark David) si esibì anche in Italia al Circo Americano dei Togni. La sua presa in volo sui talloni resta unica.
Nel 1980 la francese Sandy Sun vince una medaglia d'oro al Cirque de Demain; proveniente dalla scuola Fratellini, sarà la prima artista di questo genere emersa da una scuola di circo ad avere successo in una prestigiosa carriera internazionale.
Fino a quest'epoca, il fascino del trapezio oscillante è principalmente legato alla suspence e al pericolo. Era un punto d'onore non usare nessuna protezione, e tutti questi artisti sono stati immancabilmente vittime di più incidenti gravi, pur tornando a volteggiare nel vuoto.
Sarà il Circo Sovietico, negli anni '60, a introdurre la “longia” di sicurezza, dispositivo in genere destinato alle sole prove. Gli artisti russi, che enfatizzavano il legame con la coreografia, esclusero dai loro spettacoli l'elemento del pericolo, per concentrare lo spettatore sull'esperienza estetica e sull'abilità. La prima trapezista a sfruttare artisticamente questa condizione è Lyudmila Kanagina a metà degli anni '60: anche senza il fattore rischio, il trapezio oscillante conserva tutto il suo fascino.
La vera svolta arriva negli anni '80: alla scuola del circo di Mosca una giovane trapezista, Elena Panova, inizia a creare un numero con due maestri totalmente estranei all'arte aerea: la regista Tereza Durova e il ginnasta Victor Fomine. Vi sono casi in cui a volte l'assenza di esperienza, accompagnata a tenacia e ispirazione, possono portare a risultati epocali. Il loro lavoro prese la forma di un favoloso balletto aereo, in cui tecnica e coreografia si uniscono senza interruzione in un movimento continuo. Il numero di Elena Panova debutta ufficialmente al Festival du Cirque De Demain nel 1987. Per la prima volta, il circo occidentale scopre che si può creare un numero circense su una partitura di musica classica (Le Quattro Stagioni di Vivaldi). Vengono introdotti esercizi mai immaginati, basati sulla piroetta: le piroette in brandeggio con prese alle caviglie, la mezza piroetta con presa ai talloni...E tutto il lavoro viene svolto in un flusso continuo, con la sola energia della leggerissima volteggiatrice, senza il bisogno che un assistente da terra rilanci il moto con la corda. Il numero diventa uno dei primi esempi mondiali di quello che iniziava in quegli anni a chiamarsi “nouveau cirque”. All'esibizione parigina era presente tra il pubblico André Simard, maestro di trapezio alla neonata scuola di Montreal: fortemente ispirato dal numero, abbraccia quel tipo di tecnica, dando vita alla ricchissima “scuola canadese” di trapezio, oltre a diventare consulente aereo del Cirque du Soleil. In quanto a Fomine, con la fine del comunismo, diverrà istruttore alla scuola Fratellini, generando a sua volta il ramo “francese” del trapezio “ballant”, prima di trasferirsi in Canada e aprire il proprio studio a Montreal.
Seguire tutte le “oscillazioni” dal Duemila a oggi é impossibile. Certamente il Cirque du Soleil (grazie agli impulsi di Simard e Fomine) ha rilanciato il genere, creando un'ispirazione planetaria a numerosi giovani artisti. La disciplina, pur se sicuramente più impegnativa di arti aeree più statiche, ha comunque conosciuto una diffusione interessante nel circo contemporaneo: non solo come numero singolo ma anche con formati brevi di spettacolo, e fuori dai tendoni con i “portici” montati all'aria aperta nello spazio urbano.
Articolo pubblicato su Juggling Magazine, n. 104, settembre 2024

UN PIANETA DI FESTIVAL
Oltre il fascino della gara| di Raffaele De Ritis
Proliferano nel mondo i festival competitivi: tra ispirazioni e stimoli.
Per quanto possa essere un limite, la competizione forgia il DNA delle arti, quanto il dibattito che ne deriva. Nelle arti figurative, all’inizio del secolo scorso, i “salons” hanno cullato la nascita delle avanguardie moderne; i film e i dischi sono spesso ricordati per i premi vinti, così come i romanzi. Ballerini, violinisti e soprani accedono all’industria attraverso la competizione. Perfino i maghi. E così anche il circo, questo strano mondo tra record atletici e interpretazione ispirata. Le competizioni circensi sono in un perenne gradino sopra il rigore da campionati di pattinaggio artistico (pur senza le selezioni di una federazione) e uno sotto il glamour popolare degli Oscar cinematografici. Ma oltre i premi, di sicuro, il circo è un grande business: il raduno di impresari e manager in grandi festival rappresenta un’industria transnazionale che serve milioni di persone in tutto il mondo, superata solo da quella dei concerti dal vivo. E tra professionisti e seguaci, resta un’ampia comunità mondiale senza pari nelle arti dello spettacolo.
Tentativo per una mappa dei concorsi di circo
Delineare una “stagione festivaliera” per il circo è diventato un compito difficile negli ultimi decenni. Infatti non c’è quasi settimana all’anno senza una competizione internazionale del settore, dal Kazakhistan a Dallas. Un tour de force per l’osservatore ostinato, ancor più per i membri delle giurie (che, forse troppo spesso, sono a volte gli stessi ovunque).
C’è comunque una linea di percorso più solida di altre, che va più o meno da ottobre a febbraio. Tolti gli appuntamenti clou di Monte-Carlo e Parigi, una manciata di altri festival in questo arco del calendario ha preso la forma preziosa di tesoro per talent-scout: a Latina (Italia) nel mese di ottobre, Budapest (Ungheria) nel mese di gennaio e Girona (Spagna) nel tardo mese di febbraio si è certi di trovare tra il pubblico e nei foyer la créme de la créme della professione. E di recente il Salieri Festival di Legnago è entrato a far parte del calendario autunnale. Altrettanto calda è la Russia con ben due sontuosi festival internazionali a Mosca (“Artist” e “Idol”) e uno a S.Pietroburgo (“Without Borders”). Per non parlare della Cina, dove a novembre si alternano biennalmente i festival mondiali a Wu Han e Wu Quiao: forse i più spettacolari del pianeta. In Francia, di fianco a festival più longevi (Massy e Grenoble) si sono affermati concorsi di rilevo anche in centri minori (come S.Paul Les Dax o Bayeux) che hanno rivelato artisti importanti.
Alcuni progetti di festival sono anche riusciti a delineare missioni identitarie: la valorizzazione della musica e della messa in scena al Salieri in uno “stiloso” progetto artistico globale; l’esclusività di proposte extra-europee a Girona; l’incrocio tra circo e varietà contemporanei di “Young Stage”a Basilea; o l’originale a vetrina dell’”Italian Circus Festival” a Roma, riservata ai talenti italiani ma dedicata anche allo sguardo di osservatori internazionali.
Il risultato è che a gennaio il moderno viaggiatore dei festival, giungendo alla doppia mecca festivaliera (Monte-Carlo e Parigi) non farà che riscoprire i talenti scremati dagli altri festival: con la gradita aggiunta del brio equestre a Monte-Carlo e delle sorprese d’avanguardia a Parigi.
Un tempo classificati come concorsi di circo “tradizionale”, i festival in realtà oggi affiancano ormai numeri di forme non convenzionali, in programmi dove gli allievi delle scuole di circo o gli artisti di formazione familiare sono presenti nella stessa misura.
I festival di concorso come forme "trasformative"
È indubbio che la vetrina di un concorso trasformi la carriera di un artista. Il vincere un premio è relativamente meno importante della visibilità: i mille occhi dell’industria sono fonte di contratti, spesso a lunghissimo termine; i fotografi fermano l’esibizione nelle riviste specializzate e sul web; il pubblico di colleghi e appassionati rende popolare un nuovo artista; i video coi cellulari, quando non le trasmissioni tv (Arte TV per il Demain, la Rai e non solo per Monte-Carlo), ne rendono visibile il lavoro a chiunque, spesso in forma integrale.
Il giorno dopo l’esibizione di un numero particolarmente interessante, tutto il mondo circense ne conosce già i dettagli. Ma la trasformazione è anche quella del contenuto artistico. Prepararsi per un festival vuol dire creare un investimento per qualcosa che poi resta: lavorare sulla coreografia, creare nuovi costumi o musiche; o porsi già da anni prima del concorso l’obiettivo di inediti trick e passaggi acrobatici. Emblematico è anche lo sforzo degli artisti “contemporanei”, non legati alla forma-numero ma a creazioni ampie: nel loro caso si tratta di ridurre uno spettacolo di un’ora e oltre a una costruzione “chiusa” di sette minuti; renderlo adeguato all’immediatezza di una platea meno intima, dunque con ritmi più asciutti e meno passaggi concettuali (cosa che non sempre riesce), o costumi e musiche di impatto più spettacolare. Ad esempio, al Cirque de Demain 2024 Marica Marinoni è tornata per l’occasione a lavorare sulla forma “numero” (vedi intervista su JM 102/ Marzo 2024), che per gli artisti contemporanei è generalmente limitata alle presentazioni di fine corso.
Per artisti più tradizionali vi è invece lo sforzo di adeguarsi alle estetiche attuali, che il confronto della competizione valorizza sempre maggiormente (esiste un punteggio “presentazione” che fa media con quello per la “tecnica”). Al festival di Monte-Carlo 2024 si è visto un emblematico esempio di questi processi trasformativi: le Kolev Sisters (per metà italiane) sono nate in una famiglia di circo; formatesi all’Accademia del Circo, si sono strutturate per anni come guest act di “Mystére” – Cirque du Soleil” a Las Vegas consolidando tecnica inarrivabile ed estetica attuale: la loro conquista del Clown d’Oro non ha fatto che consacrare agli occhi del mondo il loro percorso come uno dei mano a mano femminili più importanti della storia del circo. Il premio non a caso è andato ex-aequo a Elvis Errani, ulteriore esempio di trasformazione. Domatore classico, ha rivoluzionato il proprio lavoro creando un pezzo coreografico con due anziane elefantesse, con le quali ha passato la vita, e una danzatrice. Si è oltre il numero di animali di stile dimostrativo, e il minimalismo creativo non prevede frustini o strumenti. Solo mani nude, carezze tra umani e animali, parole sussurrate nelle grandi orecchie e movimenti non innaturali, qui coniugati alla danza. La sfida di un festival può essere anche un’occasione di presa di coscienza ed evoluzione di sensibilità.
Le identità e le "fabbriche" di numeri da festival
Chi va in pista rappresenta non solo sé stesso ma, idealmente, la cultura e il territorio che lo ha generato.
I festival hanno creato la riconoscibilità degli stili: ecco “i canadesi”, quelli dell’incrocio elegante tra accademismo da modern dance e showbiz; “gli ucraini”, riconoscibili dalla stilizzazione del gesto e l’elevata performance; opposti agli spettinati “francesi” dalle idee sorprendenti, compiaciuti in transizioni meditative e t-shirt accuratamente sgualcite. Molte di queste culture creano “in laboratorio” i numeri destinati ai festival. È il caso certamente dei cinesi o di alcune compagnie russe (come quella di Gia Eradze), il cui investimento è notevole: dall’ingegneria degli accessori alla quantità di artisti, fino a venti per un numero di pochi minuti. Al Cirque de Demain 2024 si è vista una troupe cinese con una macchina idraulica a pannelli mobili di plexiglas che permettevano intricatissimi passaggi di bouncing juggling, fino a quel momento neanche mai immaginati. Sono numeri che per la loro grandiosità non avranno quasi mai mercato oltre a quello domestico. Vi sono anche casi in cui il numero viene “fabbricato” di concerto tra il festival e l’artista, pur sapendo che sarà impossibile replicarlo in seguito. È il caso del festival di Girona, che nell’edizione 2023 ha voluto proporre per la prima volta al mondo un numero di trapezisti volanti con due quadrupli salti mortali. Per l’occasione, la famiglia messicana Caballero aveva chiuso temporaneamente i suoi due circhi in America, riunendo le famiglie per l’esibizione spagnola. Per l’edizione di febbraio 2024, sempre a Girona, il festival ha commissionato alla famiglia cilena Gonzales la troupe di trapezisti più numerosa della storia: 15 artisti aerei, di cui tre porteur; e ovviamente un quadruplo salto mortale. A volte lo scopo è anche celebrativo: nell’edizione 2024 di Monte- Carlo, la famiglia di Alexis Gruss (la più antica e prestigiosa compagnia equestre al mondo), ha specialmente composto dei “tableaux” estratti dai suoi spettacoli: un percorso creativo paradossalmente tipico del “contemporaneo”.
IL VOCABOLARIO ACROBATICO
I festival da sempre giocano anche un ruolo nell’aggiornamento delle discipline. I due numeri forse più emblematici del circo attuale, la ruota cyr e i tessuti aerei, videro la luce proprio al Festival del Cirque de Demain, negli anni ’90. Questo vale anche per l’ibridazione con tecniche esterne al vocabolario circense. All’ultimo Italian Young Talent Festival si è visto un numero di overboard (poi trionfante nel successivo New Generation di Monte-Carlo); Nell’edizione 2024 del Demain si è visto per la prima volta un numero di slackline in un festival circense (già presentato in qualche spettacolo attuale); alcuni numeri esistenti vengono potenziati in occasione dei festival: come la “ruota della morte” in varianti doppie o triple. Le soluzioni più complesse diventano modelli preziosi per i produttori di circhi spettacolari, come Soleil o Flic-Flac. Lo stesso avviene anche per generi meno “tecnici”: sempre Girona ha mantenuto negli anni un nuovo filone di scoperta della clownerie sudamericana, che ha in seguito portato nuova linfa nei tendoni europei.
OLTRE LO SPETTACOLO
Vi è infine un ruolo dei festival che va oltre lo spettacolo: è il labirinto di incontri e scambi che nessuna forma virtuale potrà mai escludere. Oltre alla spontaneità dei contatti tra artisti, produttori, semplici appassionati, sono aumentate le forme collaterali. Al Demain è efficace lo spazio Pro, che organizza colloqui e tavole rotonde; a Monte-Carlo l’Eca e la Federation Mondiale du Cirque propongono cicli di conferenze; a Latina si svolge il “caffè letterario”. È poi in espansione lo spazio dedicato alla cultura e alla memoria: se nel foyer del Cirque de Demain c’è sempre spazio per due o tre progetti innovativi di pittori, scultori o designer, il Salieri è nato come progetto artistico ampio che coinvolge la comunità urbana, con ins t a l l a z i o n i d’arte o un interessante forma di interazione tra artisti e fotografi. Vi è poi la valorizzazione della memoria del circo: le prime due grandi mostre circensi hanno visto la luce proprio all’inizio del 2024. A Monte-Carlo è stata inaugurata un’imponente esposizione sui 50 anni del festival, con centinaia di costumi e interessanti postazioni multimediali; al festival di Budapest, una grande mostra ha raccolto il meglio delle più emblematiche collezioni circensi del mondo. Pur in un tempo dominato dalle immagini virtuali, i festival sono ormai una festa per gli occhi anche oltre la pista.
Articolo pubblicato su Juggling Magazine, n. 102, marzo 2024

FAMIGLIE DI CIRCO, FAMIGLIE D’ARTE
Tradizione, trasmissione del sapere e luoghi comuni | di Raffaele De Ritis
Chi non ha mai sentito l'espressione “figlio d'arte”? Lo sappiamo, sta ad indicare in modo generico la nascita da genitori di una stessa professione: “arte” nella lingua italiana delle origini equivale a “mestiere”, a un sapere pratico legato a un'attività produttiva in genere (solo molto più tardi, il termine sarà esteso a designare l'universo estetico e creativo). La stessa espressione “Commedia dell'Arte” nasce (verso la metà del XVI secolo) non come un'indicazione artistica, ma per designare gruppi di attori costituiti professionalmente (“arte”) a differenza del teatro amatoriale. È logico che in queste prime compagnie fosse privilegiata la formazione familiare, così come accadeva nelle botteghe artigianali.
Nella civiltà del Rinascimento non esistevano ancora forme di mobilità o istruzione nel mondo del lavoro. Le botteghe artigianali, come le compagnie teatrali, erano designate come “scuole”: e quando un allievo voleva accedere come apprendista, se il padrone aveva una figlia quasi sicuramente avrebbe generato un'ulteriore famiglia. Figlio d'arte dunque come sorte ma anche scelta; come vita e non solo professione. E da quel primo mondo teatrale costituito nasce l'espressione “famiglie d'arte”: dove si tramandano pratiche sia artistiche che manageriali, ma anche stili e filosofie identitarie. Questo fenomeno si sviluppa sia in occidente che nelle forme del teatro orientale.
È un sistema di vita e lavoro quasi sempre itinerante (si vive in locande o carrozzoni, si affittano stalle e saloni, prima che nascano veri teatri): e proprio nei primi secoli di questo modello teatrale, oltre alle compagnie “comico-drammatiche” iniziano a nascere anche quelle “mimico-acrobatiche” (nel corso del '700), in seguito quelle “equestri” (dopo il 1780) e infine, dopo il 1850 i circhi itineranti dotati di loro spazi mobili e smontabili. Il teatro delle famiglie d'arte in Italia vantava centinaia di compagnie ma si è praticamente estinto a metà del '900 (si ricorda la gloriosa dinastia De Filippo tra gli ultimi superstiti), quando sono cambiati i meccanismi dell'organizzazione teatrale, oppure i talenti sono stati assorbiti dal cinema e dalla tv. Alla fine è stato proprio il circo a restare il modello ideale per le “famiglie d'arte”, e questo in tutto il mondo: uno spettacolo universale, indipendente nei modi produttivi e artistici, in cui la trasmissione dei saperi garantisce un vocabolario sia di metodi organizzativi che di tecniche acrobatiche.
C'è un luogo comune romantico ancora duro a morire: che il circo detto “tradizionale” sia un sistema chiuso, in cui le tecniche si tramandano solo di padre in figlio e senza spazi innovativi. Certamente questo sistema di spettacolo delle “famiglie d'arte”, sia nel teatro che nel circo, ha avuto una fotre tendenza a un'apprendimento imitativo, e a un anacronismo che ha creato distanza con la società in evoluzione: dall'estetica scenica alla pubblicità, dal management alle tecniche acrobatiche. Ma è vero anche che tecniche e pedagogia non sono venute dal nulla. Le famiglie d'arte esistono perché qualcuno nel corso della storia le ha contaminate con un insieme di saperi. Così come i repertori della Commedia dell'Arte del '500 sono nati perché i saltimbanchi hanno incrociato i letterati, il circo è nato quando gli stessi girovaghi sono diventati ginnasti, clown o cavallerizzi, incrociando il mondo atletico, quello mimico-teatrale-coreografico e quello militare.
Si dice sempre che le grandi famiglie del circo vengano da misteriose dinastie di “zingari”: c'è sicuramente una parte di verità. Ma questo è accaduto perchè tali gruppi gitani si sono incrociati con atleti borghesi provenienti dal mondo delle palestre. D'altra parte, nel gergo del circo francese esisteva una bella espressione: pére d'eléve (lett. “padre d'allievo”). Significava che, un ragazzo non nato nel circo che avesse voluto affrontare la vita artistica, doveva seguire un maestro nell'arte come nella vita, in una vera e propria dimensione di “famiglia”. Un modello che si ritrova anche in Estremo Oriente: nell'acrobazia, nel teatro, come nelle arti marziali. Non è un caso che in Italia lo sport viene reso obbligatorio nel 1878, e i cognomi delle attuali famiglie circensi iniziano ad affermarsi proprio nel decennio successivo. Sono quasi sempre palestranti che si uniscono a troupe di saltimbanchi, divenendo imprenditori. Vent'anni prima, nel 1859, il trapezio volante fu inventato da Jules Léotard, figlio di un palestrante di Tolosa. E la più proverbiale dinastia, quella dei Fratellini, viene da un palestrante di Firenze unitosi a gruppi di girovaghi.
Non è del resto un caso che la prima scuola di circo moderna fu quella fondata da Annie Fratellini nel 1975: l'idea pedagogica era quella di vecchie glorie in pensione, delle grandi famiglie, che potessero trasmettere il loro sapere a ragazzi non nati del circo. È importante per capire una cosa: la formazione circense moderna del “nuovo circo” non nasce in rottura dal sapere tradizionale, ma quale vera e propria continuità da esso: aggiungendo il comfort di una stabilità e di più tempo per praticare acrobazia, musica ed espressione gestuale. Una maniera moderna per tramandare l'idea dei “figli d'arte”. Il sistema Fratellini era in realtà ispirato alla Scuola del Circo di Mosca, la prima al mondo, creata nel 1929, dove gli artisti di tradizione (in gran parte furono italiani) diventarono formatori in un sistema pedagogico scientificamente strutturato. Anche l'idea ulteriore dell'inserimento di coreografi e drammaturghi non era nuova in sé: gli artisti di “famiglia” hanno sempre interagito con i saperi del teatro; la novità di una “scuola di circo” era però quella di un luogo fisso e organizzato.
A Parigi, negli anni '50 e '60 esistevano numerosi piccoli gymnases: scuole/palestre private di acrobazia e arti aeree, gestite spesso da vecchi artisti di famiglia. Erano a disposizione di attori, ballerini, artisti del varietà, e hanno finito per generare grandi artisti di circo, creando le basi per le tecniche aeree moderne, e a loro volta formando quelli che sono poi divenuti i primi formatori del “nouveau cirque”.
Le famiglie di circo hanno garantito per un paio di secoli un ecosistema artistico e produttivo. Il sistema si è molto indebolito negli ultimi decenni: la scolarizzazione di base, che non è mai stata una priorità per gli artisti, è oggi più necessaria; la divisione del tempo tra formazione artistica, viaggi e organizzazione è una sfida fuori dal tempo; e soprattutto il circo ha perso la propria priorità come spettacolo popolare di massa, con la conseguente estinzione di molti grandi circhi.
Se è vero che la trasmissione familiare può facilmente cedere all'anacronismo, esiste ancora oggi una sorta di aristocrazia circense che garantisce il tramandarsi dei saperi tra generazioni, sapendo anche lasciare aperte le porte ad influenze notevolmente innovative: Knie in Svizzera, Bouglione e Gruss in Francia, Roncalli in Germania, Raluy e Rossi in Spagna, Richter in Ungheria e ovviamente Togni in Italia: ciascuna di queste famiglie (oggi anche alla settima generazione) è un vero e proprio “conservatorio” creativo di un'arte circense che non ha nulla di passatista o nostalgico, ma è grande spettacolo popolare aderente alla propria epoca, al tempo stesso “tradizionale” e “contemporaneo”, capace ancora di meravigliare milioni di spettatori.
Articolo pubblicato su Juggling Magazine, n. 100, settembre 2023